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La tragedia del Fusina |
Settima parte |
Rassegna
stampa nazionale |
Articolo 15 |
IL GAZZETTINO
Edizione della Provincia di Mestre - Terraferma
giovedì 22 gennaio 1970 |
MENTRE SI
ATTENDE CHE IL MARE RESTITUISCA LE VITTIME DEL FUSINA
LA PRIMA SALMA ARRIVERA’ OGGI |
Nel pomeriggio di oggi arriva a Piazzale Roma la prima delle salme
dei marinai morti nell’affondamento del "Fusina".
Due fratelli, partiti da Venezia lunedì all’alba, riportano a casa
il corpo di Giorgio Renier, il trentunenne direttore di macchina,
abitante a Castello.
Il lungo viaggio del dolore è cominciato ieri mattina, a Carloforte,
dove è stata celebrata una cerimonia funebre.
Subito dopo è partito il furgone con la salma per Porto Torres, dove
c’è stato l’imbarco su una nave diretta a Genova.
Giorgio Renier non sarà tumulato nel Sacrario dei Caduti del mare, a
Porto Marghera.
I parenti lo vogliono sepolto a San Michele, accanto ad un fratello
morto anche lui per mare. Accanto al padre, deceduto appena tre mesi
addietro.
Alla madre gravemente ammalata, il disastro di Capo Sandalo i
familiari lo hanno dovuto raccontare per gradi: al primo accenno,
però, la donna ha capito tutto.
«Non raccontatemi bugie, ha ripetuto a lungo, Giorgio è morto, lo
sento».
«Ora la donna è immobilizzata a letto. Se non le somministrano
l’ossigeno, se non le sostengono il cuore con i medicinali, la donna
non regge.
Da Carloforte i fratelli hanno telefonato a casa ed hanno raccontato
particolari che rendono ancora più straziante il ricordo del giovane
morto in mare.
Giorgio era scampato al gorgo della nave che si inabissava.
Anche lui, come il superstite Ugo Freguia, aveva nuotato a lungo.
Come il Freguia, forse l’ufficiale di macchina si sarebbe salvato se
il gioco delle correnti non lo avesse trasportato innanzi ad una
scogliera ripida e alta.
Stremato è stato sbattuto più volte contro la roccia alla quale non
gli è riuscito di aggrapparsi e così è morto.
Ieri pomeriggio, intanto è partito per Carloforte, il direttore
della società armatrice del «Fusina», comandante Borsani.
A Carloforte si incontrerà con l’ing. Frech e con il dott. Andreaus,
direttori degli stabilimenti «Sava» di Porto Marghera, della quale
la società armatrice del «Fusina», è una consociata.
Da Carloforte dovrebbe giungere a Venezia stasera o stanotte anche
Ugo Freguia.
L’amministrazione comunale di Chioggia ha affisso un manifesto, in
cui è detto: «Fino ad oggi un uomo solo è stato trovato in vita;
quattro, tra i quali un nostro concittadino, sono stati raccolti
esanimi.
Gli altri sono ancora dispersi e ogni speranza sembra di ora in ora
svanire.
La Giunta comunale esprime il proprio cordoglio alle famiglie
colpite e partecipa all’apprensione di quanti ano animati dalla
speranza».
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UGO FREGUIA
RACCONTA AL PADRE
«NON LI HO PIU’ VISTI DOPO UN TEMPORALE» |
Ieri notte, pochi minuti prima delle due, il telefono ha squillato a
casa di Pasquale Freguia, al numero 14 di riva Corinto, al Lido.
Era una intercomunale dalla Sardegna: chiamava Ugo Freguia, l’unico
superstite del «Fusina», il ventottenne cameriere che aveva
nuotato per sette ore, prima lontano dal gorgo di risucchio e poi
verso il faro di Porto Vesme mentre dietro di lui i marittimi suoi
compagni soccombevano ad uno ad uno per sincope, tra i flutti.
Una voce malsicura di chi si sforza di non far capire
all’interlocutore, al padre in ansia, quanto è costato salvare la
pelle.
E colpi di tosse uno dietro l’altro.
«Papà caro – ha detto Ugo - sto bene, non essere in pensiero.
Ma sono tanto stanco e stufo di essere qui.
Non vedo l’ora che finisca tutto e di tornare a casa.
Mi tocca andare in giro ogni giorno, c’è sempre un compagno da
riconoscere».
«Non è più in grado di resistere» dice il padre, raccontando la
telefonata, la prima che gli ha fatto dopo quello che ha passato.
«Xe bombardà dalle famiglie di quei poveretti: vanno lì e lo
abbracciano, lo vogliono sentir parlare, lo assediano.
All’inizio protestavano, nel loro dolore, perché lui non voleva
descrivere quello che aveva visto: ma loro, è comprensibile,
volevano sapere.
Lui era il solo che avesse visto vivi i suoi compagni, l’unico a
tornare sulla terra.
Ma così non può continuare: per quanta forza e per quanto spirito
abbia, un uomo prima o poi crolla. E noi non vogliamo che succeda,
lo vogliamo a casa.
«Ugo ha la bronchite, tossiva continuamente al telefono.
Non è per egoismo che lo vogliamo, ma perché abbia un po’ di
tranquillità.
Oggi deve andare a Cagliari per parlare con i tecnici, non so, con
altra gente.
E forse domani torna.
Lui, al telefono, mi tranquillizzava stanotte, ma sentivo la tosse e
poi mi ha detto che ha le gambe e le braccia piene di lividi e di
abrasioni: sono stati i sassi della riva, perché là non c’è spiaggia
come è stato scritto: ci sono scogli e sassi pungenti.
Il giubbotto salvagente, mi ha detto Ugo, lo ha protetto quando
l’ultima onda lo ha gettato sulla riva».
«E dopo tutto questo deve guardare i cadaveri degli uomini che
erano con lui sulla nave e riconoscerli, affrontare il dolore delle
famiglie, i tecnici.
Prima era con loro, in mare, e poi li deve guardare morti.
Come si può resistere a questo?
Gli ho chiesto come aveva fatto.
Mi ha detto quello che si sa che si era buttato in acqua, insieme a
tanti altri, e subito aveva cominciato a nuotare per andare lontano
dalla zona di risucchio della nave.
C’era la luna e si vedevano, tra loro, si chiamavano per
incoraggiarsi e per orientarsi verso la riva.
Ogni tanto le onde li nascondevano uno dall’altro.
Dovevano gridare perché c’era il vento e il rumore del mare.
Poi la luna è scomparsa e su tutta la zona c’è stato un temporale,
con lampi e tuoni e la pioggia.
E lui si è trovato solo.
Ma il faro lo vedevi? Gli ho chiesto.
Si sì, ha risposto, ogni tanto, quando un’onda mi portava in alto lo
vedevo.
Il resto si sa.
Non ho avuto il coraggio di prolungare il dialogo, di sentire il suo
strazio».
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LA TRISTE
STORIA DI ANGELO
TROVATO IL CORPO DELLA MASCOTTE? |
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A Carloforte, fra le salme portate all’asciutto dopo il dramma
dell’affondamento del «Fusina» c’è quella di un marinaio
giovanissimo.
Lo ha recuperato l’equipaggio del rimorchiatore «Atleta» che lo ha
portato a terra.
Si tratta quasi certamente del sedicenne Angelo Barbieri, la
mascotte del «Fusina».
Il ragazzino – si è già detto- era al suo primo imbarco ed era
fierissimo dell’aiuto che il suo lavoro «da uomo» gli consentiva
di offrire ai genitori, al fratellino, alla sorellina che ancora non
è in grado di capire il senso della tristezza che è calata, domenica
notte, sulla loro povera casa.
Al «Fusina» ed al mare Angelo Barbieri c’era arrivato contro la
volontà del padre, Menotti, marittimo anche lui.
Finita la scuola, Angelo si era accorto che a casa il bilancio si
chiudeva a stento, fra sacrifici e rinunce. Allora s’era dato da
fare.
Prima aveva fatto l’apprendista barbiere in una botteguccia vicino a
casa sua.
Per qualche mese si sforzò di imparare ad usare pennello, forbice e
rasoio.
Aveva imparato abbastanza in fretta, ma il risultato era stato per
lui scoraggiante.
Angelo, allora, aveva cambiato mestiere.
S’era messo a fare il panettiere.
S’alzava a notte fonda, passava ore e ore ad impastar farina, ad
aprire e richiudere il forno.
Anche a fare il fornaio, però, Angelo guadagnava troppo poco per
soddisfare il suo sogno: quello di consentire alla famiglia di
affittare un appartamento nuovo, più ampio, più bello.
Un giorno Angelo disse al padre:«Mi voglio imbarcare anch’io».
La risposta era stata un «no», giustificato da molti timori, da
molta apprensione.
Angelo con patetica ostinazione aveva rinnovato la richiesta al
padre.
«Me l’ha chiesto da uomo – racconta Menotti Barbieri – e non ho
potuto rifiutare il permesso».
Dopo il primo mese di vita a bordo del «Fusina» Angelo mandò a
casa alla madre la busta-paga: 93 mila lire, c’era scritto in fondo.
Nella busta ce n’erano 88 mila.
«Cinquemila lire, aveva scritto a matita Angelo, me le sono tenute
per le mie necessità».
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