A cura di Salvatore Borghero Rodin

     

 

 
 

A cura di Salvatore Borghero Rodin - Racconto a puntate sui principali eventi che hanno dato vita alla grande storia di Carloforte e dell'Isola di San Pietro

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16.01.2010 - Fusina - Nel 40° anniversario della tragedia che toccò il cuore dei Carlofortini
   

La tragedia del Fusina

Settima parte

Rassegna stampa nazionale

Articolo 15

IL GAZZETTINO
Edizione della Provincia di Mestre - Terraferma

giovedì 22 gennaio 1970

MENTRE SI ATTENDE CHE IL MARE RESTITUISCA LE VITTIME DEL FUSINA
LA PRIMA SALMA ARRIVERA’ OGGI

Nel pomeriggio di oggi arriva a Piazzale Roma la prima delle salme dei marinai morti nell’affondamento del "Fusina".

Due fratelli, partiti da Venezia lunedì all’alba, riportano a casa il corpo di Giorgio Renier, il trentunenne direttore di macchina, abitante a Castello.

Il lungo viaggio del dolore è cominciato ieri mattina, a Carloforte, dove è stata celebrata una cerimonia funebre.

Subito dopo è partito il furgone con la salma per Porto Torres, dove c’è stato l’imbarco su una nave diretta a Genova.

Giorgio Renier non sarà tumulato nel Sacrario dei Caduti del mare, a Porto Marghera.

I parenti lo vogliono sepolto a San Michele, accanto ad un fratello morto anche lui per mare. Accanto al padre, deceduto appena tre mesi addietro.

Alla madre gravemente ammalata, il disastro di Capo Sandalo i familiari lo hanno dovuto raccontare per gradi: al primo accenno, però, la donna ha capito tutto.

«Non raccontatemi bugie, ha ripetuto a lungo, Giorgio è morto, lo sento».

«Ora la donna è immobilizzata a letto. Se non le somministrano l’ossigeno, se non le sostengono il cuore con i medicinali, la donna non regge.

Da Carloforte i fratelli hanno telefonato a casa ed hanno raccontato particolari che rendono ancora più straziante il ricordo del giovane morto in mare.

Giorgio era scampato al gorgo della nave che si inabissava.

Anche lui, come il superstite Ugo Freguia, aveva nuotato a lungo.

Come il Freguia, forse l’ufficiale di macchina si sarebbe salvato se il gioco delle correnti non lo avesse trasportato innanzi ad una scogliera ripida e alta.

Stremato è stato sbattuto più volte contro la roccia alla quale non gli è riuscito di aggrapparsi e così è morto.

Ieri pomeriggio, intanto è partito per Carloforte, il direttore della società armatrice del «Fusina», comandante Borsani.

A Carloforte si incontrerà con l’ing. Frech e con il dott. Andreaus, direttori degli stabilimenti «Sava» di Porto Marghera, della quale la società armatrice del «Fusina», è una consociata.

Da Carloforte dovrebbe giungere a Venezia stasera o stanotte anche Ugo Freguia.

L’amministrazione comunale di Chioggia ha affisso un manifesto, in cui è detto: «Fino ad oggi un uomo solo è stato trovato in vita; quattro, tra i quali un nostro concittadino, sono stati raccolti esanimi.

Gli altri sono ancora dispersi e ogni speranza sembra di ora in ora svanire.

La Giunta comunale esprime il proprio cordoglio alle famiglie colpite e partecipa all’apprensione di quanti ano animati dalla speranza».

UGO FREGUIA RACCONTA AL PADRE
«NON LI HO PIU’ VISTI DOPO UN TEMPORALE»

Ieri notte, pochi minuti prima delle due, il telefono ha squillato a casa di Pasquale Freguia, al numero 14 di riva Corinto, al Lido.

Era una intercomunale dalla Sardegna: chiamava Ugo Freguia, l’unico superstite del «Fusina», il ventottenne cameriere che aveva nuotato per sette ore, prima lontano dal gorgo di risucchio e poi verso il faro di Porto Vesme mentre dietro di lui i marittimi suoi compagni soccombevano ad uno ad uno per sincope, tra i flutti.

Una voce malsicura di chi si sforza di non far capire all’interlocutore, al padre in ansia, quanto è costato salvare la pelle.

E colpi di tosse uno dietro l’altro.

«Papà caro – ha detto Ugo - sto bene, non essere in pensiero.

Ma sono tanto stanco e stufo di essere qui.

Non vedo l’ora che finisca tutto e di tornare a casa.

Mi tocca andare in giro ogni giorno, c’è sempre un compagno da riconoscere».

«Non è più in grado di resistere» dice il padre, raccontando la telefonata, la prima che gli ha fatto dopo quello che ha passato.

«Xe bombardà dalle famiglie di quei poveretti: vanno lì e lo abbracciano, lo vogliono sentir parlare, lo assediano.

All’inizio protestavano, nel loro dolore, perché lui non voleva descrivere quello che aveva visto: ma loro, è comprensibile, volevano sapere.

Lui era il solo che avesse visto vivi i suoi compagni, l’unico a tornare sulla terra.

Ma così non può continuare: per quanta forza e per quanto spirito abbia, un uomo prima o poi crolla. E noi non vogliamo che succeda, lo vogliamo a casa.

«Ugo ha la bronchite, tossiva continuamente al telefono.

Non è per egoismo che lo vogliamo, ma perché abbia un po’ di tranquillità.

Oggi deve andare a Cagliari per parlare con i tecnici, non so, con altra gente.

E forse domani torna.

Lui, al telefono, mi tranquillizzava stanotte, ma sentivo la tosse e poi mi ha detto che ha le gambe e le braccia piene di lividi e di abrasioni: sono stati i sassi della riva, perché là non c’è spiaggia come è stato scritto: ci sono scogli e sassi pungenti.

Il giubbotto salvagente, mi ha detto Ugo, lo ha protetto quando l’ultima onda lo ha gettato sulla riva».

«E dopo tutto questo deve guardare i cadaveri degli uomini che erano con lui sulla nave e riconoscerli, affrontare il dolore delle famiglie, i tecnici.

Prima era con loro, in mare, e poi li deve guardare morti.

Come si può resistere a questo?

Gli ho chiesto come aveva fatto.

Mi ha detto quello che si sa che si era buttato in acqua, insieme a tanti altri, e subito aveva cominciato a nuotare per andare lontano dalla zona di risucchio della nave.

C’era la luna e si vedevano, tra loro, si chiamavano per incoraggiarsi e per orientarsi verso la riva.

Ogni tanto le onde li nascondevano uno dall’altro.

Dovevano gridare perché c’era il vento e il rumore del mare.

Poi la luna è scomparsa e su tutta la zona c’è stato un temporale, con lampi e tuoni e la pioggia.

E lui si è trovato solo.

Ma il faro lo vedevi? Gli ho chiesto.

Si sì, ha risposto, ogni tanto, quando un’onda mi portava in alto lo vedevo.

Il resto si sa.

Non ho avuto il coraggio di prolungare il dialogo, di sentire il suo strazio».

LA TRISTE STORIA DI ANGELO
TROVATO IL CORPO DELLA MASCOTTE?

A Carloforte, fra le salme portate all’asciutto dopo il dramma dell’affondamento del «Fusina» c’è quella di un marinaio giovanissimo.

Lo ha recuperato l’equipaggio del rimorchiatore «Atleta» che lo ha portato a terra.

Si tratta quasi certamente del sedicenne Angelo Barbieri, la mascotte del «Fusina».

Il ragazzino – si è già detto- era al suo primo imbarco ed era fierissimo dell’aiuto che il suo lavoro «da uomo» gli consentiva di offrire ai genitori, al fratellino, alla sorellina che ancora non è in grado di capire il senso della tristezza che è calata, domenica notte, sulla loro povera casa.

Al «Fusina» ed al mare Angelo Barbieri c’era arrivato contro la volontà del padre, Menotti, marittimo anche lui.

Finita la scuola, Angelo si era accorto che a casa il bilancio si chiudeva a stento, fra sacrifici e rinunce. Allora s’era dato da fare.

Prima aveva fatto l’apprendista barbiere in una botteguccia vicino a casa sua.

Per qualche mese si sforzò di imparare ad usare pennello, forbice e rasoio.

Aveva imparato abbastanza in fretta, ma il risultato era stato per lui scoraggiante.

Angelo, allora, aveva cambiato mestiere.

S’era messo a fare il panettiere.

S’alzava a notte fonda, passava ore e ore ad impastar farina, ad aprire e richiudere il forno.

Anche a fare il fornaio, però, Angelo guadagnava troppo poco per soddisfare il suo sogno: quello di consentire alla famiglia di affittare un appartamento nuovo, più ampio, più bello.

Un giorno Angelo disse al padre:«Mi voglio imbarcare anch’io».

La risposta era stata un «no», giustificato da molti timori, da molta apprensione.

Angelo con patetica ostinazione aveva rinnovato la richiesta al padre.

«Me l’ha chiesto da uomo – racconta Menotti Barbieri – e non ho potuto rifiutare il permesso».

Dopo il primo mese di vita a bordo del «Fusina» Angelo mandò a casa alla madre la busta-paga: 93 mila lire, c’era scritto in fondo.

Nella busta ce n’erano 88 mila.

«Cinquemila lire, aveva scritto a matita Angelo, me le sono tenute per le mie necessità».

Continua...

Fine settima parte - Articolo 15

 

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