|
Vedi
anche |
|
|
|
|
La tragedia del Fusina |
Settima parte |
Rassegna
stampa nazionale |
Articolo 06 |
IL GAZZETTINO
Edizione della Provincia di Venezia
martedì 20 gennaio 1970
- pagina 7 - |
Giorgio
Renier di Castello
Navigava in attesa di entrare all’Acnil |
Giorgio
Renier, 32 anni, Castello 481 (Sant’Anna), celibe, direttore di
macchina, era l’unico veneziano residente nel centro storico,
imbarcato sul «Fusina».
La salma è stata recuperata.
Ci è stato impossibile avvicinare la famiglia, che si è chiusa in un
comprensibile dolore, vinta dall’angoscia.
Le sole notizie su Giorgio Renier ci sono venute da un suo compagno
di scuola, che con Renier aveva anche diviso il banco all’Istituto
Nautico, e che era stato assieme al Renier nel viaggio compiuto per
mare durante l’ultimo anno di scuola. Giorgio Renier si era
diplomato nel ’61; da allora aveva sempre viaggiato per mare,
cambiando varie navi (era stato anche su una petroliera).
Dopo dieci anni aveva deciso di trovare lavoro a terra, forse
l’aveva anche trovato.
Ci racconta il suo vecchio compagno di scuola: «sono rimasto
incredulo nel leggere il giornale e nel vedere che Giorgio si
trovava sul «Fusina».
L’avevo incontrato un mese fa e ci eravamo fermati per scambiarci
due chiacchiere.
Mi aveva detto che voleva trovare un posto a terra; mi pare all’Acnil.
Mi sembra di ricordare che mi aveva perfino detto che aveva
cominciato un periodo di prova».
Giorgio Renier aveva prestato servizio all’Acnil come «stagionale»
nell’estate scorsa – ci è stato confermato – e attendeva ora di
entrare nei ruoli organici dell’Azienda.
(fine dell’articolo) |
I familiari
del comandante
Vogliono soltanto piangere da soli |
E’
stato impossibile avvicinare la vedova del comandante della
«Fusina», signora Maria Caprioli, di cinquantun anni, e il figlio
Adriano di ventisette anni, che vivono in un appartamento al secondo
piano di viale Garibaldi 61, a Mestre.
Dalla porta socchiusa da un parente (un cognato del comandante Mario
Catena) si intravedono una donna dal viso disfatto dal pianto, un
giovane con gli occhiali, una ragazza in pantaloni e pelliccia,
volti tesi.
Nessuno parla se non per chiedere al cronista di non intervenire.
E’ un momento di grande tensione: è il momento in cui si potrebbe
onorare la memoria di un uomo di mare e di esaltarne la figura, di
dire alla gente : «Questo che forse qualcuno ha incontrato
sull’autobus e in piazza Ferretto, che lo ha sfiorato, è un uomo che
viveva sul mare, che aveva raggiunto i luoghi più remoti del
pianeta».
E raccontare la sua vita, il suo sacrificio perché la gente si
accorga, almeno ora, di tutto ciò che sta dietro un volto e cioè
della storia di uomo.
Ma ci sono momenti in cui è impossibile un qualsiasi dialogo con i
superstiti, protetti da una barriera (comprensibile) di amici e di
parenti che, oltre tutto, stanno preparandosi ad andare in Sardegna,
per ricevere dal mare, se sarà possibile, almeno il corpo di Mario
Catena, veneziano, capitano di lungo corso e comandante di quel
tragico mercantile.
(fine dell’articolo) |
Non sapeva
resistere al richiamo del mare
Sergio Doria era decorato di croce al valor militare |
Lo
avevano perfino promosso per invogliarlo a navigare: era diventato
caporale di macchina, ma Sergio Doria, cinquantun anni,
sottufficiale della «Fusina», era stufo di mare, di quei lunghi o
lunghissimi «vuoti» nella vita (quattordici mesi, una volta, uno
dietro l’altro).
Per due volte, dopo sposato, aveva smesso di cercare imbarchi.
La prima volta, dopo quattro anni di navigazione, la moglie, Lea
Nordio, anche lei di Chioggia (si sono trasferiti a Mestre in un
appartamento in Via Antonio da Pordenone, sette anni fa) aveva detto
di essere stufa di solitudine.
Si era messo a fare il pescatore, il «valisàn», ricorda suo
fratello, ma non aveva resistito, e così la seconda volta.
Ma poi era tornato sulle navi dove, per sei mesi, aveva vissuto
anche su una «barca fasulla» una delle navi-ombra: un lavoro senza
futuro, un «lavoro pericoloso».
Decorato di croce al merito, aveva vissuto la guerra su una nave
ausiliaria, la cisterna «Po» ma subito dopo la liberazione si era
imbarcato su navi mercantili e aveva girato attorno al mondo: i suoi
familiari ricordano i racconti che faceva della Cina e della Russia,
del Giappone:
L’imbarco sulla «Fusina» gli garantiva viaggi non troppo lunghi,
il ritorno in famiglia (ha due figli maschi, Umberto di 22 anni e
Franco, tornato in permesso dal reparto dove fa il servizio
militare, e una femmina, Anna, di sedici anni.
Era stufo di quella vita e «quella nave non gli piaceva».
Pensava alla sicurezza nella vecchiaia, alla pensione.
«Mi conteranno anche gli anni di guerra» diceva.
Il 6 gennaio aveva telefonato da Iglesias per fare gli auguri di
buon compleanno alla moglie.
I.
P. |
LARGA ECO
DI CORDOGLIO PER IL TRAGICO
DESTINO DEI VENEZIANI DEL MERCANTILE FUSINA |
Uno
spostamento del carico all’origine della sciagura? |
«Uscita da Porto Vesme, la "Fusina" dopo aver percorso dieci miglia
ha dovuto accostare per approssimarsi alla rotta sud-est, cioè
dirigersi verso Messina.
E’ possibile che in fase di accostata, la nave sia sbandata,
probabilmente per l’azione del vento e del mare “cattivo",
determinando il cosiddetto ingavonamento, vale a dire lo sbandamento
dell’unità su un lato e quindi la tragedia».
Così il comandante Mario Borsani dirigente della SANA – con sede a
Mestre – ha cercato di spiegare una tra le possibili cause
dell’affondamento della motonave veneziana, avvenuto ad un miglio e
mezzo dall’isola di San Pietro, in Sardegna.
«Il carico – ha aggiunto – può aver influito sulla tragedia, ma non
lo si può dire.
Infatti, i carichi alla rinfusa vengono assicurati con delle paratie
longitudine perché sia evitato lo spostamento della merce; questa
operazione è fatta nei porti da ditte specializzate sotto il
controllo degli addetti al Registro navale e dello stesso comandante
dell’unità.
Conoscendo bene come avviene questo controllo e conoscendo
soprattutto la precisione del comandante Catena io escluderei che
l’affondamento della "Fusina" sia stato determinato da uno
spostamento del carico.
L’inchiesta in corso, ad ogni modo, stabilirà le cause del
sinistro».
Il comandante Borsani dirige la società di navigazione da alcuni
anni.
Domenica sera era nella sua abitazione di via Roma a Spinea quando
lo abbiamo raggiunto per comunicargli la notizia dell’affondamento
della "Fusina".
Non sapeva ancora nulla.
L’Ufficiale è rimasto dapprima incredulo, poi si è messo in
comunicazione con la capitaneria di porto di Venezia e allora ha
avuto conferma della tragedia.
Subito si è recato negli uffici della direzione della società in
corso del Popolo e si è messo in comunicazione con le Capitanerie di
porto di Carloforte, Sant’Antioco e Cagliari, dalle quali soltanto
alle 23,30 apprendeva che si nutrivano ormai ben poche speranze di
ritrovare vivi il comandante e i 17 uomini di equipaggio della
"Fusina".
E’ cominciato allora il doloroso compito di informare i familiari
dei «dispersi».
Il comandante Borsani, coadiuvato da due funzionari della società
(Luciano Masetti e Giovanni De Simeone) ha provveduto ad avvertire
quelli che avevano il telefono.
Alle altre famiglie, abitando tra l’altro lontano da Mestre, sono
stati spediti dei telegrammi.
La moglie del comandante della "Fusina" Mario Catena, appena
ricevuta la notizia è accorsa con il figlio e un fratello negli
uffici della società.
«Il comandante Catena – ci ha detto Mario Borsani – era un ottimo
ufficiale, sapeva benissimo il suo mestiere.
Era stato ingaggiato dalla nostra società subito dopo l’acquisto
della "Fusina" ed a lui era stato affidato il comando dell’unità.
Era molto stimato dai suoi dipendenti».
G.
B. |
LA FAMIGLIA
DI FREGUIA ABITA AL LIDO
VICINO A QUELLA DI ERMINIO DORIA |
Il
vecchio padre dell’unico superstite non ha potuto ancora parlare col
figlio |
Per
fortuna, ad informare subito la gente, ci sono i giornali, la radio,
la televisione.
Giudicata notevole la scomparsa di una piccola nave veneziana, il
Telegiornale ne ha dato notizia la sera di domenica, specificando
che dei 19 uomini dell’equipaggio soltanto uno è ufficialmente vivo,
il cameriere Ugo Freguja.
Che fortuna, dunque, per i familiari del cameriere: una prima
lancinante notizia, e subito dopo la tranquillità.
E gli altri?
Uno degli altri, il padre del primo macchinista Erminio Doria,
seduto anch’egli davanti al televisore, per un pelo ha evitato di
esser fulminato da un infarto.
Non ne sapeva nulla prima (come i Freguja del resto) e nulla ne ha
saputo da chi avrebbe dovuto informarlo sulla sorte del figlio.
Il caso vuole anche che i Freguja e i Doria vivano, al Lido, a poca
distanza tra loro: i primi in una casa modesta sulla Riva Corinto,
in vista del Bacino, gli altri sul versante opposto, al di qua dei
murazzi e del mare, in via delle Meduse.
Cameriere il Freguia per pura ambizione del mondo, è all’ufficiale
Doria, spinto in mare da un’irrequieta vocazione, che il destino
riserva la sorte più crudele.
Dice suo padre Antonio, pensionato dell’Acnil:«Non c’è stata ombra
di comunicazione ufficiale da parte di nessuno.
Se non mi piacesse lo sport, ieri sera non sarei stato seduto
davanti al televisore, e magari non ne saprei niente nemmeno adesso.
Anche mio figlio era uno sportivo, un campione della pallacanestro.
Il gusto di guardare quelle cose lì l’avevo preso da lui……».
Una bella casa, costosa, i pavimenti lucidi, la presenza tangibile
di una donna amorosa.
Di là, in salotto, un paio di amici venuti a dare sollievo di cui
pare non ci sia bisogno.
In pigiama a mezzogiorno, gli occhi rossi ma senza lacrime, questo
bel vecchio di 66 anni è come frastornato, con la mente altrove.
Trasale di continuo ma la voce non gli trema.
«E’ un colosso mio figlio. Non mi rendo conto di come possa……».
Non «era», dunque: suo figlio «è» un colosso, come dire che è
vivo, è suo padre che lo vuole così.
Finché nessuno si presenta a dirgli qualcosa, dandogli un’amara
garanzia, perché non sperare?
«Un toro, un lupo di mare, un buono», sussurra la zia Antonia, una
signora dall’aria mite.
Erminio e il fratello li crebbe lei, da quando morì la loro madre.
«Come può essere accaduto?
E dove sarà mai ora il mio bel nipote, benedetto?», invoca ancora
la zia.
Era (o è) davvero un bel nipote: un colosso, un toro, tutto quello
che c’è in questi trasalimenti amorosi è vero.
Le sue fotografie son tante, sparse sul tavolo: in maglietta da
campione, dietro la torta nuziale con a bella moglie Alessandra.
Due visi aperti, il sorriso istintivo, una comune innocenza di
pensieri.
Trentun anni lui, ventisei lei, Erminio ed Alessandra sembrano dalle
fotografie una sfida al destino.
Una provocazione.
«Forse – aggiunge la zia torcendosi le mani in grembo – sarà su
qualche spiaggia nascosta, in attesa che qualcuno lo salvi».
Ieri mattina, in aereo, Alessandra si è precipitata in Sardegna.
Era giusto del resto, e inevitabile.
Curiosamente, nemmeno i Freguia sono lieti.
Forse ancora non si rendono conto della fortuna che gli è toccata in
sorte o, fors’anche, è il rancore di sentirsi ignorati fino
all’ultimo.
«Io mi domando una cosa sola – prorompe Pasquale Freguia, 76 anni,
materassaio – perché, se il naufragio è accaduto venerdì sera,
noialtri lo abbiam saputo solo dalla televisione, due sere dopo?».
A questo una spiegazione si trova: e la si ricava appunto dalle
traversie del figlio Ugo, l’unico sopravvissuto.
Una notte disperata in mare, il dormiveglia sulla spiaggia, il lungo
sonno in casa del soccorritore; «ma – insiste il vecchio – se
allora nemmeno mio figlio si fosse salvato, e si fosse fatto vivo
quando ha potuto, nessuno si sarebbe preoccupato di una nave che non
dava notizie di sé da due giorni?!».
A guardar dalla finestra a pianterreno, la laguna davanti è un
semplice catino d’acqua che non fa paura.
L’Ugo, cameriere della «Fusina», deve aver tratto da questa
apparenza di tranquillità le sue curiosità del mondo. |
Continua... |
Fine settima parte - Articolo 06 |
|
[Torna
ad inizio pagina] |
Per
inviare una e-mail alla redazione di "Storia" clicca qui sotto
|
|
|