Venezia, 21 gennaio
Per chiarire il
mistero dell’affondamento del “Fusina”, al largo di Capo Sandalo,
nel mare di Sardegna, ci vorranno i sommozzatori.
Allora soltanto si potranno avere delle certezze.
Si potrà vedere se le lamiere furono squarciate da una roccia
insidiosa.
Si potrà constatare, per quanto sia difficile, se è stato l’inatteso
e pur sempre temuto spostamento di un carico traditore, qual è la
blenda, a determinare la tragedia, a portarsi via la vita di
diciotto uomini.
Si potrà, forse, trovare una risposta al «come», al «quando» al
«dove» il comandante e l’equipaggio del «cargo» hanno commesso – se
c’è stato – l’errore che ha determinato l’affondamento.
La nave, nel
«processo» indiziario di sinistro (il solo «processo» possibile,
oggi) pare destinata alla più completa «assoluzione».
Il “Fusina” era una
buona nave, abilitata alla navigazione oceanica, di robusta
struttura, costruita - pezzo su pezzo – secondo canoni rigorosi.
Questo, almeno, è quanto si può constatare negli Uffici
dell’Ispettorato regionale del «Registro navale italiano», al
secondo piano di uno stabile di Calle dei Cerchieri, a Dorsoduro.
«Il “Fusina”, in
agosto, era rimasto all’asciutto nel bacino di carenaggio veneziano:
la struttura del «cargo» era stata sottoposta – lo abbiamo già
scritto - ad una accurata revisione e nulla di anormale era stato
rilevato.
Non solo: nei primi
giorni di dicembre il “Fusina” ormeggiato a Porto Marghera, aveva
avuto a bordo altri tecnici del «Registro» che, sulla base del
normale scadenziario, avevano riveduto l’apparato motore,
controllandone l’efficienza.
Il risultato era stato identico alla revisione delle strutture del
mese di agosto; tutto bene, tutto in ordine.
Il “Fusina” poteva teoricamente, almeno, affrontare qualunque mare,
in qualunque circostanza.
Lo afferma il capo dell’ispettorato regionale del «Registro»
ingegner Canal, il quale ci ha mostrato una pubblicazione ufficiale
per l’anno ’68: il catalogo della marineria italiana.
Quando il volume
venne stampato, il “Fusina” si chiamava ancora «Nozarego» ed era di
proprietà della società «Sant’Ambrogio» di Milano.
Nello stesso volume, stampato a metà dello scorso anno, al nome «Nozarego»
è stato sostituito il nuovo nome della nave, ma le indicazioni in
nessun’altra parte sono cambiate.
Accanto al nome,
dunque, sul catalogo della marineria italiana è stampato, in bella
evidenza una stella nera.
«E’ il segno – dice l’ing. Canal – che distingue i mercantili
costruiti direttamente sotto il controllo del «Registro navale
italiano», secondo le norme in vigore in Italia che riflettono
l’esperienza completa dei nostri costruttori e le esperienze fatte
all’estero.
E’, in sostanza, il simbolo della buona qualità della nave».
Lungo 87 metri e 43
centimetri, largo 13 metri e 40, il «Fusina» aveva un’altezza di 8
metri e 11 centimetri. Stazzava 2 mila 706 tonnellate lorde, 1.473
nette.
Aveva una capacità di carico lordo (incluso cioè il peso degli
arredi, del combustibile, dei viveri, dell’acqua e dell’equipaggio)
di 4 mila e 200 tonnellate.
A mezzo carico il «Fusina» poteva raggiungere i 14 nodi orari di
velocità.
Aveva un motore termico con sette cilindri due tempi, capace di
sviluppare una forza massima di 1.750 cavalli vapore.
Il «Fusina» -
l’hanno confermato i documenti del «Registro» - era sceso in mare a
Napoli, presso i cantieri «Pellegrino», a metà del 1957.
A pieno carico, se sul «cargo» erano state rispettate le norme di
legge, la nave godeva di una «riserva di galleggiamento» superiore
ad un metro e 46 centimetri.
«La nave – ha detto
l’ing. Canal – non aveva dato, al controllo, alcun sintomo di
logoramento. Nella valutazione dei fatti che possono aver
determinato il suo affondamento, c’è da tener conto di un paio
almeno di altri particolari costruttivi: il “Fusina”, infatti, oltre
alle paratie stagne obbligatorie (quella anticollisione di prora e
quella che separa l’apparato motore dal resto della nave, a poppa)
aveva altre paratie, egualmente stagne, che dividevano la stiva in
tre zone distinte.
«Non è tutto – ha aggiunto l’ing. Canal – fra stiva e carena, da
prora a poppa del “Fusina”, c’era il regolare doppio fondo continuo,
costruito da celle parzialmente separate.
Un accorgimento in uso presso tutti i costruttori, per evitare il
rischio che uno scoglio affiorante, incidendo la carena, provochi
l’immediato affondamento della nave.
La nave può anche urtare uno scoglio e risultare danneggiata.
Può affondare ma, generalmente, si inabissa lentamente.
Può anche continuare la navigazione, però».
All’ing. Canal abbiamo chiesto un giudizio comparato sul “Fusina”.
La risposta è stata immediata : «I Lloyd’s godono di un prestigio
che deriva dalla loro severità di assicuratori, dalla pignoleria
delle loro perizie.
Ebbene, lo posso dire con assoluta tranquillità, sono arrivate e
partite dal porto di Venezia, arrivano e partono in tutti i porti
italiani, navi assicurate presso i Lloyd’s, che sono in condizioni
ben peggiori di quelle del “Fusina”.
Per non parlare delle unità che battono bandiera ombra...».
Tutto a posto,
dunque, a bordo del «cargo» affondato al largo di Capo Sandalo?
«Nulla – ha
concluso l’ing. Canal – che potesse far sospettare, sia pur
lontanamente, il rischio di un naufragio dovuto a cause tecniche,
attinenti alla nave».
E allora non
restano da giudicare che gli elementi naturali (condizioni del
vento, del mare, della visibilità).
Nel lutto, nel
dolore, nella commossa partecipazione di una intera città, ad una
così tragica vicenda, il discorso è poi certamente difficile ed
impietoso da fare.
Ma, se si vuole la verità, neanche l’ipotesi dell’errore umano può
essere scartata.
Errore inconscio o, peggio, rischio non sufficientemente calcolato.
Si torna, dunque,
al discorso del carico, sul modo e sui tempi di stivaggio.
E’ chiaro ed è
logico, che il tempo risparmiato è tutto denaro guadagnato per la
compagnia armatrice ed a volte anche per il comandante e per
l’equipaggio.
Anche il tempo risparmiato quando si scarica è denaro guadagnato.
Allora, minerali come la blenda, come la bauxite, come il carbone
vengono caricati, come si usa dire «a cumulo», fino al limite
consentito dalla portata della nave.
Poi si parte. Se il mare è buono si va in fretta.
Se il mare è cattivo, si parte egualmente e si spera nella buona
stella.
«Il carico a cumulo
– ci ha detto ancora l’ing. Canal – non è certamente quello che
offre garanzie maggiori di stabilità del bastimento, ma lo usano
fare quasi tutti, italiani e stranieri, allo stesso modo.
Neanche caricare minerale con una percentuale di acqua che supera i
limiti della prudenza, è un modo per navigare tranquilli.
Lo si fa spesso, comunque, da noi e altrove».
Ogni nave ha una
stazza lorda massima, oltre la quale il carico non è consentito.
C’è un disco dipinto con vernice indelebile su ogni scafo: quando la
nave parte lo si deve vedere, quel disco, se la nave è sovraccarica,
l’acqua lo copre e gli uomini addetti alla vigilanza nei porti, la
fermano.
Sono multe
salatissime e gravi provvedimenti disciplinari a carico dei
comandanti.
Nella stazza lorda,
però, è compreso anche il peso del combustibile.
Se si parte dal porto con i serbatoi del combustibile vuoto, la nave
può essere caricata di più e il disco famoso, dipinto con vernice
indelebile, si vede egualmente, fuori dall’acqua.
Lontano dal porto,
più tardi, una bettolina pomperà nei contenitori le tonnellate di
combustibile che servono al viaggio.
Il disco scompare,
per il sovrappeso.
Ma il combustibile
si consuma ed in porto, quando si arrivi con il sovraccarico, il
disco indelebile è fuori, ancora, a «fingere» una sicurezza che in
mare non c’è mai stata.
E’ un caso, non dei
più rari.
Gianpiero Rizzon |