A cura di Salvatore Borghero Rodin

     

 

 
 

A cura di Salvatore Borghero Rodin - Racconto a puntate sui principali eventi che hanno dato vita alla grande storia di Carloforte e dell'Isola di San Pietro

Indice generale della rubrica "La grande Storia di Carloforte"

 

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16.01.2010 - Fusina - Nel 40° anniversario della tragedia che toccò il cuore dei Carlofortini
   

La tragedia del Fusina

Quarta parte

Storie e racconti di mare - Volume X

Il presente racconto, scritto da Luciano Molin, e tratto dal Volume X di "Storie e racconti di mare", a cura del Circolo Ufficiali Marina Mercantile di Riposto è copia conforme all’originale.

Il Team Work Isola di San Pietro Organizzazione Internet ringrazia sentitamente il Signor Copani per aver concesso l’autorizzazione alla pubblicazione.

Salvatore Borghero

 

Circolo Ufficiali Marina Mercantile Riposto

Storie e racconti di mare
Volume X
Opere selezionate del Concorso “Fatti di bordo” Sezione Narrativa del Premio Nazionale ARTEMARE
RIPOSTO 1997

IL NAUFRAGIO DEL “FUSINA”
di

Luciano Molin

Quello che state per leggere è il racconto fedele di un fatto di mare realmente accaduto, che rimarrà nella storia della marineria come una maglia di una tragica catena che forse non sarà mai completata.

Anche in questo avvenimento sovrasta l’ombra di un cupo destino che chiede spesso le sue vittime sacrificali lasciando poca luce all’indagine della nostra ragione.

Il naufragio del “Fusina” è avvenuto al largo di Capo Sandalo, ad un ora e mezza di navigazione da Porto Vesme, scalo marittimo poco lontano da Sant’Antioco, nella Sardegna meridionale.

Forse nessuno avrebbe saputo più nulla del “Fusina” se uno solo dell’equipaggio non si fosse miracolosamente salvato.

Il mercantile con un carico di minerale, blenda flottante per un totale di 3995 tonnellate, era partito da Porto Vesme per Marghera dove era atteso alla banchina della Montedison, alla quale era destinato il carico.

Sappiamo, oggi, che il “Fusina” si trova in fondo al mare a due miglia e mezzo da Punta delle Oche, nella zona di Capo Sandalo, che giace coricato su un fianco e che presenta squarci nella carena, provocati verosimilmente da spuntoni corallini incontrati scivolando sul fondo.

Ora veniamo al racconto, cioè alla testimonianza del cameriere Ugo Freguia, unico sopravvissuto.

«Quella sera, a bordo c’era allegria. Eravamo tutti contenti essendo prossimi ad iniziare il viaggio di ritorno che ci riportava a casa. Il capitano aveva portato a tavola alcune bottiglie di “Cannonau” che gli erano state offerte dall’Agenzia di Vesme. Si festeggiava l’ultima traversata di Giovanni Nordio che doveva sbarcare a Venezia. Il radiotelegrafista infatti aveva ricevuto la lettera di assunzione da parte della SNAM progetti, che lo aveva destinato alla cabina radio di una piattaforma per le ricerche petrolifere. Inoltre avrebbe dovuto sposarsi, dopo pochi mesi,con una bella ragazza bruna di Chioggia. Insomma passammo tutti una buona serata.

Io, dopo cena, feci il mio consueto lavoro di disbrigo e riassetto delle salette e approntai i tavoli per la colazione del mattino seguente. Scesi poi la scaletta che mi portava al ponte inferiore e mi rinchiusi nella mia cabina. Mi rilassai, soddisfatto della giornata, dopotutto il mio lavoro mi piaceva, mi consentiva una certa libertà ed io potevo distribuire nel tempo le mie incombenze, conservando il mio entusiasmo di vivere. Qualche volta, solo, in cabina ricordavo, non senza qualche presunzione, i lazzi a me diretti dagli ufficiali più anziani che mi dicevano bonariamente: “Ugo, possibile che tu non abbia ancora incontrato una graziosa ‘pollastra’ padovana?”.

Si parlava spesso in dialetto a bordo, essendo noi per la gran parte veneti. Io, in verità, avevo sempre rifiutato di “agganciarmi” con qualsiasi ragazza, considerando l’estrema gelosia del mio carattere, che non si accordava certo con il mio lavoro di navigante.

Quella sera conversai, se così si può dire, con le poche cose che conservavo nella mia intimità, al riparo di curiosità altrui: qualche lettera e qualche fotografia che estraevo dal cassetto della piccola scrivania sotto l’oblò. Pensavo anche ai colleghi della nave.

Non c’era uno solo, tra loro, che mi fosse antipatico e pensavo davvero che la nave fosse la mia seconda famiglia.

Non mi garbava l’idea che qualcuno fosse in procinto di sbarcare.

Alle 21 sentii avviarsi i motori principali e il rumore dei verricelli per la manovra.
Le vibrazioni delle paratie mi tennero sveglio durante la partenza, poi mi coricai e presto mi assopii.

Accadde tutto alle 22.30, lessi l’ora sulla mia sveglietta.

Udii un colpo sordo, come il tonfo di una valanga e venni quasi sbalzato fuori dalla cuccetta. Subito qualcuno entrò nella mia cabina e mi scosse gridando.
Era il nostromo Padoan, urlava: “Fora tuti chè stemo andando a pico!”.
Ripeteva le stesse parole andando avanti e indietro, lungo il corridoio.
La nave si era talmente sbandata che bisognava aggrapparsi a qualsiasi cosa per non cadere.

Mi infilai a fatica una maglia e sopra il giubbotto di salvataggio, stringendo forte i lacci sul petto e salii in coperta.
Vidi gli alberi inclinati a 45 gradi e la scialuppa più bassa che veniva invasa e sbattuta dal mare infuriato che presto la strappò e se la portò via.
Il radar continuava a girare sopra la mia testa, il comandante gridava ordini ai marinai che armeggiavano intorno all’altra scialuppa.
Le onde arrivavano ovunque e ogni impresa pareva impossibile.
Qualcuno inciampava e cadeva, i fusti dell’olio rotolavano disancorati in coperta, molti erano presi dal panico, avevano perduto il controllo e correvano senza capire.
Un violentissimo maestrale, con tuoni e lampi, soffiava quasi di prora, verso la costa.

La nave s’inclinava sempre di più.

Il comandante capì che la stavamo perdendo, risalì sul ponte e parlò con il marconista, poi estrasse i razzi di soccorso e li sparò tutti e buttò a mare le polveri fosforescenti.
Vidi in alto le fiamme dei razzi che illuminavano il cielo scendendo piano.

La lancia non si poteva ammainare, le frustate del mare non permettevano ai marinai di lavorare, vidi la paura sbiancare i loro volti.

Io rimasi calmo. Forse non mi resi conto del pericolo e la paura non mi paralizzò mai.
Guardai la luce verde della boa, i razzi e poi guardai il faro. Mi dissi: - devi arrivare fin là -

Tutta l’attenzione del capitano era rivolta agli sforzi dei marinai intorno alla scialuppa. Qualcuno in precario equilibrio tentò di tagliare le drizze con l’ascia ma le ghie non cedettero perché i colpi risultavano scomposti, inefficaci.

La nave ingavonata continuava a sbandare, lo scafo vibrava come fa un morente in agonia, sembrava volere capovolgersi da un momento all’altro. Il comandante intuì che non c’era più tempo, ordinò di buttarsi in mare. Si tuffarono per primi il marinaio Ballarin ed il meccanico Ravalico, io fui il terzo. Mi trovai come un fuscello dentro l’acqua gelida.
Rigettai subito, una o due volte. Forse questo m’impedì la congestione che causò la morte di altri.

Appena galleggiai mi dissi: “qui bisogna amministrare bene le forze, a riva ci possiamo arrivare, dista non più di tre miglia e il maestrale ci aiuta”.

Conservai la fede sicuro di salvarmi. Cercai di allontanarmi con gli altri il più presto possibile dallo scafo che affondando ci poteva risucchiare. Vicino a me nuotavano almeno quattro uomini, si dibattevano, ogni tanto qualcuno gridava aiuto ma io non potevo far nulla, sentivo una gamba paralizzata dai crampi del gelo e rispondevo: “da’i, state calmi, l’onda ci porta a terra, non agitatevi così vi stancherete, il salvagente ci tiene a galla, a terra ci arriveremo, il vento ci spinge verso la costa”.

Loro continuavano a gridare ed a chiamare aiuto.
La gamba mi faceva male ma c’era il faro, ogni pochi secondi, quando risalivo sulla cresta dell’onda a darmi speranza; ne scorgevo la luce prima di precipitare nel buco della valle dell’onda.

Poi non so, nuotai tutta la notte e ad un tratto mi accorsi di non sentire più alcuni miei compagni. Sentivo ormai solo la voce di Ballarin che era il più forte, gli altri non li sentivo più, vidi un salvagente vuoto.

Ricordo che ad un tratto il chiarore della luna scomparve e su tutta la zona infuriò una tempesta con lampi e saette e la pioggia.

Ero esausto dopo tante ore in acqua, ma sapevo che stavo ormai vicino alla terra.

Pensai: - non puoi morire, tua madre ha bisogno di te - e nuotai ancora. Vidi le onde frangersi sugli scogli, sentii che le prime punte delle rocce mi grattavano il salvagente, vidi una secca, cercai di aggrapparmi a qualcosa, fui respinto indietro una volta, due volte. Un’onda più lunga, alta come una montagna mi prese e mi portò in alto e mi sbatté come un sacco sulla spiaggia.

Ero vivo, sfinito, “strassà”, ma vivo.

Mi abbandonai, avevo fame e vomitavo, avevo bevuto molta acqua. Chiamai i miei compagni a lungo, cercando sulla spiaggia. Non sentii altro che il fragore delle onde sugli scogli. Mi addormentai sotto la roccia più alta, in una zona selvaggia, disabitata.

Quando riaprii gli occhi, dolorante, intirizzito, bagnato, vidi, alla luce del giorno, una casa, che seppi dopo appartenere all’ing. Freni, e la raggiunsi carponi. La villa era vuota, entrai dalla porta di servizio, trovai un letto e coperte. Subito mi addormentai e là dormii fino a domenica mattina quando una voce d’uomo, dopo tante ore di vento, mi svegliò. Era Antioco Grosso, un anziano pastore che portava al pascolo il suo gregge. Mi precipitai fuori ad incontrarlo, gli dissi che ero un naufrago e che avevo fame. Lui mi aiutò e mi condusse al Compartimento Marittimo di Carloforte, dove denunciai, con un ritardo di 48 ore il naufragio del “Fusina”.

Non sapevo ancora ch’io ero l’unico superstite. Dopo la mia prima relazione al maresciallo Porcu, fui accompagnato all’albergo “Riviera” dove il giorno seguente, il lunedì, il dottor Leone mi visitò e mi trovò in buone condizioni, pur se ancora in stato di shock e di estrema spossatezza». (Sic).

A questo punto, il racconto pur frammentario del naufragio, approda ad un fardello di domande che troveranno risposta solo in parte.

Le ricerche degli altri 18 componenti dell’equipaggio, considerati dispersi, furono condotte con estrema cura dalla motovedetta C.P. 306, dalla fregata “Andromeda”, dalla fregata “Altair” della Marina Militare, da alcuni elicotteri e da altre unità di Cagliari, dalla Guardia di Finanza, nonché da aerei del Centro di Soccorso di Elmas.

Furono presto recuperate le salme del direttore di macchina, del nostromo, del cuoco, dell’operaio meccanico, del marconista e di un marinaio. Il 21 gennaio erano già state recuperate otto salme di cui sei identificate. Nel giorno di giovedì 22 gennaio furono recuperati altri due corpi.

Il giorno 23 gennaio in seguito all’esame necroscopico delle salme, il dottor Felice Maurandi, incaricato dal pretore di San Antioco dr. Polo, accertò che ben cinque dei primi otto corpi recuperati, tra i quali Ballarin, erano morti per assideramento, dopo che avevano raggiunto gli scogli dove il mare li aveva sbattuti e dove avevano agonizzato molte ore.

Chi non può profondamente turbarsi rileggendo sui giornali le notizie del povero Angelo Barbieri Boscolo? A Carloforte tra le vittime portate a terra dal rimorchiatore “Atleta” vi era quella del mozzo sedicenne. Il ragazzino morto al suo primo imbarco aveva insistito per ottenere l’assenso del padre per partire sul “Fusina”. Il padre che era marinaio non voleva, ma Angelo aveva insistito tanto. «Me lo ha chiesto da uomo - racconta Menotti Barbieri - e io non ho potuto rifiutare». Appena finita la scuola Angelo si era accorto che a casa il bilancio si chiudeva a stento, tra sacrifici e rinunce. Allora si era dato da fare. Dopo il primo mese d’imbarco, Angelo mandò a casa alla madre la busta paga: novantatremila lire c’era scritto in fondo, nella busta ce n’erano invece ottantottomila. «Cinquemila - aveva scritto a matita – le conservo per le mie necessità». Norma Boscolo continuerà a ripetere finché avrà fiato: «Avevo preparato il dolce domenica, aspettavo che mio figlio apparisse sulla porta di casa, invece il mare me lo ha portato via per sempre».

Chi non può meditare tristemente sul destino di Giovanni Nordio, il radiotelegrafista? Egli doveva morire a due anni! Durante la guerra, nel 1944, egli stava in braccio alla madre sulla M/n “Giudecca” che si trovava in laguna a Venezia. La motonave venne bombardata da un aereo ed affondò. La madre rimase ferita ma riuscì, nuotando, a portare a riva il bimbo ed a consegnarlo ai soccorritori prima di spirare. Giovanni era al suo ultimo imbarco, aveva in tasca la lettera d’assunzione della SNAM progetti ed il suo matrimonio era ormai prossimo. È davvero insensato parlare di un nero destino?

Chi non diventerà muto pensando alla morte di Giuseppe Ballarin che era forte come un toro e abilissimo nuotatore, che aveva fatto per anni il bagnino sulla spiaggia di Jesolo ed aveva portato valido aiuto a molti bagnanti in pericolo?

Che dire del vecchio Giordano Voltolina che aveva ripreso il mare per giungere ad impinguare un poco la sua misera pensione?

Diciotto uomini sono morti nel naufragio del “Fusina”. Cinque di loro non sono mai stati ritrovati. Per cinque famiglie la preghiera sarà adombrata di attesa, di vuoto e di disperazione. Per la ragione umana perdureranno le appassionate domande, i laceranti perché.

Una sola cosa si può considerare miracolosa in questo avvenimento ed è il modo in cui Freguia sia riuscito a salvarsi.

Da tutto quanto egli ha narrato e descritto emerge la grande forza d’animo che accompagnò la sua fortuna, se fortuna può chiamarsi l’essere sopravvissuto da solo alla tragedia.

Oggi sembra che tutto il dramma che visse quel venerdì notte, sia scorso sopra un grande schermo.

Forse egli conserva una cicatrice nel profondo di se stesso, ma non la lascia vedere. Con un corpo sempre solido e tutto muscoli, il sorriso sempre pronto, dimostra senza parole che è felice di essere vivo, anche se non potrà mai dimenticare i suoi compagni del “Fusina”.

Nave “FUSINA”
Crew members list

Comandante

Mario Catena

52

1° Ufficiale coperta Giacinto Gimma 32
2º Ufficiale coperta Giordano Voltolina 62
Direttore macchina Giorgio Renier 31
1º Ufficiale macchina Erminio Doria 31
2º Ufficiale macchina Giacomo Canova 47
Ufficiale Radiotelegrafista Giovanni Nordio 27
Nostromo Duilio Padoan 49
Marinaio Domenico Bonaldo 36
Marinaio Giuseppe Ballarin 32
Marinaio Giuseppe de Gennaro 33
Marinaio Felice Spanio  
Mozzo Angelo Menotti Barbieri 15
Capo fuochista Sergio Doria 52
Operaio meccanico Francesco Ravalico 37
Ingrassatore Nicola Farinola 24
Ingrassatore Giuliano Scielzo 24
Cuoco Giovanni Lenzovich 56
Cameriere Ugo Freguia  

Uno solo si è salvato, cinque corpi non sono mai stati recuperati e riposano in mare.

Continua...

Fine quarta parte

 

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