L’illustre archeologo
Giovanni Lilliu, nei suoi scritti, non fa alcuna menzione su
Carloforte a proposito d’antichi monumenti, fino al
1988, quando invitato
a Carloforte dall’assessore all’ambiente prof. Giovannino Sedda,
scrive una lettera allo stesso assessore, in data 26 Novembre 1988,
ricevuta dal Comune di Carloforte il 3 dicembre 1988 e
successivamente protocollata il 5 al numero 09125, in cui spiega:
Mi riferisco al
sopralluogo effettuato su Suo invito a Carloforte il 27–9-1988
inteso ad esprimere un parere sulla valorizzazione di alcuni beni
culturali, di ordine archeologico, nell’isola di San Pietro.
Come Ella ha potuto
constatare, essendo stata mia preziosa guida, io ho visto soltanto i
luoghi dove sono ubicati i nuraghi La Laveria e Sa Pabassina (Il
Becco).
Del nuraghe La
Laveria (detto pure “La Piramide” da un obelisco piramidale fungente
da punto di allineamento marittimo) si osservano resti di non facile
identificazione.
Infatti l’antico
monumento è coperto e in gran parte nascosto da fitta vegetazione di
macchia mediterranea.
In evidenza rimane
un tratto murario di rozzi blocchi di trachite di grandi e medie
dimensioni, da riferire alla struttura primitiva dell’edificio che
sembra essere un nuraghe monotorre.
Detta muratura
avanza su d’un lato per l’altezza apparente di due-tre metri. Data
l’estensione delle rovine nel pendio e al piede della collina su cui
sorge la remota fabbrica, viene il sospetto che esistono altre
strutture contigue al nuraghe.
Il taglio della
macchia potrebbe avvalorare la supposizione.
Il nuraghe Sa
Pabassina mostra una rovina assai complessa.
Esso è situato
sull’estremità d’una collina conica che si affaccia da un lato sulla
valle coltivata a vigneti e con case di abitazione di Le Tanche,
aperta in direzione del mare; dall’altro lato domina la valle
parallela a Le Tanche verso il “Becco”.
Questa posizione
strategica indica che la costruzione era funzionale al controllo e
alla difesa di pericoli che venivano dal mare.
Infatti l’edificio
nuragico blocca le due valli per le quali poteva realizzarsi una
minaccia esterna diretta al possesso dell’interno dell’isola.
Per quanto si può
capire dai resti che di tratto in tratto emergono dalle rovine e tra
fitti cespugli di varie essenze, il nuraghe pare essere di pianta
complessa nel senso che alla primitiva torre rotonda, eminente, si
addossavano murature sussidiarie, intervenute successivamente allo
scopo di ampliare e meglio munire il fortilizio originario.
Nel punto più alto
della collina, poco discosto dal ciglio precipite, si osserva il
giro quasi completo della torre maggiore del diametro di circa otto
metri; il vano rotondo che si presume costituire l’unico ambiente
dello stesso, è ripieno completamente di pietre e di terra.
Della torre si
scorgono due filari di pietre trachitiche del posto, da supporre
collocati a livello non lontano da quelle di fondazione della
fabbrica.
Poco più in basso
della medesima torre, a questa aderente, si evidenzia un tronco
leggermente curvilineo di muratura che forse cingeva uno spazio
aperto (cortile?).
Ancora più in
basso, sull’asse del nuraghe, appare parte di un piccolo edificio
circolare, di rozzo aspetto, forse resto d’una capanna nuragica.
L’insieme di Sa
Pabassina dimostra l’esistenza d’una costruzione d’un certo rilievo
di età nuragica evoluta (seconda metà II millennio a.C.), che spicca
in confronto agli altri nuraghi dell’isola di San Pietro.
Il complesso si
distingue per la posizione panoramica, per respirare in un contorno
ambientale reso assai pittoresco dai colori della ricca e ben
conservata vegetazione di macchia mediterranea, per la suggestione
che ha in se un monumento che ha attraversato secoli di storia e
vicende autonome di vita.
Non mancano dunque
qualità e stimoli vari per un intervento volto a valorizzare il
tutto. Pare allo scrivente che l’insieme di Sa Pabassina giustifichi
uno scavo archeologico, ma questo non dovrebbe essere disgiunto
dall’acquisizione dell’area e dalla costituzione d’un parco
archeologico-naturalistico.
In tal modo l’opera
umana del passato si spiegherebbe interamente in quanto restituita
razionalmente al supporto d’una natura che non è molto diversa da
quella del tempo dei nuraghi.
Si darebbe inoltre
all’isola di San Pietro, cui non mancano altre suggestioni e risorse
utili al progresso culturale e civile, un segno di memorie
fortemente caratteristico, anche in senso di identità sarda.
E’ necessario
infatti che la storia dell’isola di San Pietro, alla quale
certamente l’elemento ligure ha dato e dà un alto contributo, sia
ricostruita per intero, ossia siano ricercate e individuate tutte le
componenti, in particolare quelle indigene, che hanno costituito
attraverso i tempi il tessuto di vita e di lavoro del microcosmo
“carlofortino”, ma hanno arricchito anche la grande storia
dell’isola madre: la Sardegna.
Per descrivere altre
opere antiche, ho consultato il manoscritto, tuttora inedito, sulla
storia di Carloforte scritto dall’ing. Enrico Maurandi, che così
narra:
“Oltre la necropoli
romana dello Spalmatore di fuori altre tombe si rinvennero un po’
dappertutto nell’Isola:
alle Fontane, al
Macchione, al Pozzino, al Notaro.
Tutte presentano gli
stessi caratteri di quelle dello Spalmatore.
Nei terreni
circostanti la Chiesetta di San Pietro si trovarono depositi di ossa
umane, senza nessuna iscrizione od altro che potesse informarci
dell’origine di questi depositi.
Esistono tuttora due
pozzi che si ritengono d’epoca romana; l’uno il cosidetto “Pozzo
grande” nella regione Pozzino (del quale parla Agostino Tagliafico
nella sua relazione).
L’abate Segni scrive:
“la sua profondità totale sorpassa i 70 palmi, l’incavatura della
pietra è di 50 palmi circa. E’ incavato alle falde d’un monticello,
che per quanto si potè conghietturare dagli avanzi e vestigia
d’antichità doveva servire di provvigione alla fortezza che sovra
era eretta, e che in quei barbari tempi (forse anche prima della
venuta di G.C.) per le reliquie d’antichità ivi trovate, era
l’antico asilo di chi comandava”.
L’altro pozzo, pure
ritenuto d’origine romana, si trova in prossimità dell’abitato e
propriamente nel fondo detto del “Conte” (dal Conte Ciarella che ne
era il proprietario, avendolo ereditato dal suocero Giovanni
Porcile).
A “Taccarossa” nel
predio eredi Bernardo Maurandi, si rinvennero delle vasche da bagni,
che per ignoranza furono spezzate ed i cocci posati sui muri di
chiusura dei vigneti, nonché un pozzo profondo oltre a m. 25.
Anche sulla sommità
del “Monte Ravenna” havvi un pozzo profondo, scavato nella trachite,
ora in gran parte colmato con pietrame. E’ evidentemente d’origine
antica.
Nella regione “Gioia”
entro anfore, di nessun pregio, si trovarono delle piccole monete
cartaginesi, di rame, senza alcun valore numismatico. Esse andarono
disperse.
Nella località
“Macchione” e nel vigneto detto “del Sergente” (ora eredi Bracci) fu
rinvenuta una selce lavorata, con un foro nel centro che serviva ad
innestarvi un manico di legno. Identiche se ne trovarono, circa 30
anni or sono, nelle campagne di Calasetta; queste furono donate al
Museo di Antichità di Cagliari.
A proposito
dell’antichità dell’Isola il Valery dice:
“Accanto a questa
chiesa (di San Pietro) veggonsi avanzi di alcune tombe di antichi
edifici e più lungi, nel sito detto “Briccu”, le rovine di un
castello con un pozzo ripieno di ciottoli.
Nell’Isola furono pure
trovate delle monete romane e puniche.
Di queste tombe, di
antichi edifizi e del castello più nulla esiste da vecchia data.
Il pozzo di cui parla
il Valery – presso il Bricco – non è mai stato “ripieno di
ciottoli”.
Nel vigneto Buzzo,
sito appunto nella località dove il Tagliafico trovò dei ruderi di
una importante costruzione, il proprietario rinvenne delle monete
d’argento e di rame, stoviglie, vasi lacrimatoj, pietre lavorate
ecc., che conserva religiosamente.
Oltre 38 anni or sono
sul lido del mare, presso il Porto, e prima che venisse costrutta la
banchina (braccio di mezzogiorno) e precisamente di fronte al
Palazzo Rombi, dopo una mareggiata, un ragazzo raccolse una moneta
romana, d’oro, ben conservata. Fu donata al Cav. P. Dol di Cagliari.
Anche chi scrive
queste note possiede due monete antiche: una d’argento coll’impronta
dell’imperatore Adriano rinvenuta al Bricco; l’altra di rame,
cartaginese, raccolta allo Spalmatore di fuori. Entrambe ben
conservate”.
Si corregga il
Maurandi a proposito del Valery, in quanto nel suo Viaggio in
Sardegna, effettuato nel 1834, scrive:
“...Vicino a questa
chiesa vi sono resti di tombe ed edifici antichi e, più lontano, nel
luogo detto Bricen, le rovine di un castello con un pozzo pieno di
palle di pietra...”
Sei di queste palle di
pietra, si trovano murate all'interno della chiesetta, entrando a
destra, sotto la lapide di Carlo Vittorio Porcile.
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Le palle di
pietra descritte dal Valery |
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Antica strada |
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