La prima volta che vidi la batteria costiera antinave Zonza di
Mezzaluna, la seconda guerra mondiale aveva già mandato in rovina
tutta l’Europa. Avevo percorso lo stradone, allora bianco e non
asfaltato, che passando dal Macchione proseguiva verso Valacca e lo
Stagno dei Pescetti e si trasformava in sentiero nella località
Buemarino – Giacchino.
Salendo
sulla collina di Bellavista, nei pressi della Croce, si percorreva
un tratturo che accorciava le distanze e conduceva rapidamente allo
Spalmatore. Dall’alto apparve la batteria, con i quattro cannoni da
152 mm. rivolti verso l’orizzonte,quasi volessero bombardare
l’isolotto del Toro. I cannoni erano mimetizzati da una rete per
impedire l’identificazione da parte dei ricognitori inglesi.
Spiccava la torretta dove alloggiava la centrale di tiro e tutti i
soldati di vedetta.
Apparvero nitidi i camminamenti e le riservette. Le due mitragliere
per la difesa aerea spuntavano dal verde cupo della macchia
mediterranea. Il silenzio fu rotto da uno squillo prolungato di
tromba e tutti i soldati si riunirono nel piazzale della caserma con
la “gavetta” in mano per consumare il pasto. (La gavetta era un
recipiente d’alluminio, a sezione ovale, con coperchio e posate: si
trasformava in scodella e piatto).
L’estate del 1942, anche allora giunse all’improvviso e con i miei
compagni ci riunivamo ogni mattina all’ombra del “Cisternone” per
dare inizio al rito dei giochi.
Proprio il primo giorno sentii un assordante rumore proveniente da
Via Roma.
Si susseguirono alcuni scoppiettii, poi apparve, avvolto da una nube
di vapore, l’autocarro del regio esercito: si fermò in parallelo
all’inferriata della prima arcata e il militare alla guida stese una
manichetta per riempire d’acqua il grande contenitore metallico
sistemato sul piano di carico; poi quell’acqua sarebbe stata
trasportata alla batteria Zonza.
L’autocarro con le ruote piene, ormai malandato, era un residuo
bellico della guerra 1915-18. Riusciva a funzionare per la bravura
dei due soldati che lo guidavano.
Giravo intorno all’autocarro con morbosa curiosità. Nell’Isola di
San Pietro solo uno e unico era moderno: quello della miniera di
ferro e manganese.
Portato a termine il rifornimento, i due autisti presero una
manovella e, infilato l’asse della stessa in un foro posto sotto il
radiatore, iniziarono a girarla .Il motore scoppiettò più volte, si
mise in moto,tutto l’autocarro sussultò e crepitò, il motore si
fermò, mentre una nuvola di vapore uscì dal radiatore.
I militari insistettero e, finalmente, riuscirono a partire.
Sull’acciottolato l’autocarro fremette e produsse un infernale
rumore di ferraglia.
Voltò in Via Roma seguito da tutto il gruppo di bambini. Urlando
come forsennati incitavamo l’autista ad aumentare la velocità. Fu
raggiunto il massimo della confusione con grande divertimento dei
passanti e dei militari. L’automezzo imbocco Via Mazzini e, giunto
sulla strada carreggiata dopo Piazza Pegli, aumentò la velocità
scomparendo alla nostra vista in una nuvola di polvere bianca.
Con l’inizio dei bombardamenti, anche a me tocco l’avventura dello
“sfollamento”. Nicola, mio padre, rientrò nell’isola per una breve
convalescenza di due settimane e decise di trasferirsi per tutto
quel periodo nella baracca dell’amico Simone, a breve distanza dalla
batteria costiera.
Simone, classe 1899 come mio padre, alto oltre m.1.80, aveva vissuto
per alcuni anni a New York assieme a Nicola e ambedue avevano
partecipato alla Prima Guerra Mondiale combattendo con coraggio e
onore nell’Alto Adriatico contro le potenti basi navali austriache.
Avevano un rapporto amichevole e fraterno.
Rientrarono vivi nell’isola di San Pietro perché la sfortuna non fu
avversa nei loro confronti.
Non riuscirono mai a digerire l’entrata in guerra dell’Italia contro
gli Stati Uniti d’America.
In cucina una enorme pentola di terracotta era pronta per il pranzo,
mentre su un muricciolo un folto gruppo di ragazze chiacchierava
all’ombra di una tenda. Come un fulmine comparve sul piazzale il
tenente Cocuzza; ci fu un bisbiglio fra le ragazze. L’ufficiale
entrò rapidamente in cucina e, alzando il coperchio della pentola,
esclamò: “Oggi che c’è di buono?”
“Ué! Cocuzza, ma quando arrivano gli Americani ?”. Esclamò Simone.
Cocuzza rimase almeno un minuto in silenzio e poi replicò:
“Ma quali americani, qua ‘nisciuno’ viene signor Simone! Gli
americani combattono per vedere Napoli. Silenzio, silenzio, il
nemico ci ascolta!”. Cocuzza si appoggiò al muro vicino ai fornelli
e scoppio in una ironica e prolungata risata. Simone lo apostrofò
con una frase americana ; la stessa frase fu esclamata ad alta voce
anche da mio padre. Tante volte avevo chiesto a mio padre la
traduzione, ma quello faceva orecchie da mercante. Riuscii a
tradurla da adulto:“figlio di puttana !”
Il tenente d’artiglieria Cocuzza sarebbe stato un ottimo filosofo -
poeta. Vasta cultura, bella presenza, simpatico e cordiale, aveva
conquistato il cuore delle ragazze di tutto lo Spalmatore e
dintorni. Preferiva l’amore alla guerra, ma in quel particolare
momento non poteva dirlo: sarebbe finito nelle patrie galere
militari.
Nel
pomeriggio, nonostante il caldo d’agosto, Cocuzza ritornò sul
piazzale della baracca con gli stivali tirati a lucido dal suo
attendente, ma i pantaloni e la camicia erano in condizioni pietose.
Il suo attendente circolava con gli zoccoli. I rifornimenti del
vestiario erano cessati da qualche anno e la situazione era
veramente critica.
Simone si rivolse a mio padre: “Nick, ma questi an da vinse i
americoni?” (Nick, ma questi devono battere gli americani?)
Cocuzza che capiva molto bene il tabarchino, rispose con tutta la
voce che aveva in gola:
“Scimun, la parola d’ordine è Vincere e Vinceremo”. La risata di
Cocuzza fu forte e travolgente e per completare l’opera iniziò a
cantare: “Stai luntana da stu core, a te vola stu pensiero…..”. Le
ragazze erano tornate in gran numero sul piazzale della baracca:
ogni sera lo spettacolo era assicurato. In modo inaspettato la
sirena lancio l’allarme e dopo qualche minuto il rombo delle
fortezze volanti avvolse tutta l’isola. Gli aerei americani
passarono alti sulle nostre teste in direzione nord, verso la
Germania. Cocuzza e l’attendente rimasero immobili, così tutti i
cento uomini della batteria: sapevano che le fortezze volanti non
avevano come obiettivo la Mezzaluna.
Simone porse a mio padre la vecchia chitarra acquistata a New York e
iniziarono a cantare: “Valencia, dolce terra che ci afferra con le
mille seduzion...”.
Qualche mese dopo le navi americane gettarono le ancore nel Golfo di
Palmas, era l’autunno del 1943 e avevo compiuto da poco dieci anni.
I cannoni della batteria Zonza, durante gli oltre quattro anni di
guerra, furono silenziosi perché non spararono neanche un colpo. La
fortuna arrise ai cento uomini destinati sulla scogliera della
Mezzaluna: non guerra, ma caccia, pesca e amore.
Giovanni Rombi |