PRESIDENTE.
– Interpellanze del senatore Gianquinto e di altri senatori. Se ne
dia lettura.
DI VITTORIO
BERTI BALDINA, Segretario:
GIANQUINTO,
SEMA, PIRASTU. - Al Ministro della marina mercantile -
Per conoscere i risultati dell’inchiesta disposta dall’autorità
marittima per l’accertamento delle cause del naufragio della
motonave <<Fusina>> avvenuto nella notte dal 16 al 17 gennaio 1970,
al largo di Porto Vesme in Sardegna, inchiesta che risulta conclusa
il 16 giugno.
Premesso che la nave giace su un fondo sabbioso, coricata sul fianco
sinistro, e presenta nella fiancata destra ingobbature ed ampie
falle, alcune di 3 – 4 metri di diametro, gli interpellanti chiedono
di conoscere, in particolare, la natura delle ingobbature e degli
squarci, accertamento, questo, risolutivo per stabilire le cause del
sinistro, dato che il carico di blenda non poteva né esplodere, né
produrre ingobbature e squarci, che nemmeno possono essere stati
provocati dall’urto della nave contro il fondo perché esso è
sabbioso.
Comunque, la nave è appoggiata sul fianco opposto a quello che
presenta squarci e ingobbature.
Gli interpellanti ritengono che squarci ed ingobbature nemmeno
possono essere stati prodotti da urti contro gli scogli, sia perché,
come rilevato, il fondo è sabbioso, sia perché il naufragio avvenne
in mare aperto, a circa due miglia dall’isola di San Pietro.
Gli interpellanti chiedono, altresì, di conoscere le cause che
determinarono la rottura dell’elica e, ancora, perché non è stata
vietata la partenza della nave se le condizioni meteorologiche, la
quantità del carico e le condizioni del suo stivaggio non
corrispondevano alle prescrizioni dell’autorità marittima.
Otto tale profilo, si fa riferimento alle dichiarazioni rese dal
Governo al Senato nella seduta del 23 giugno 1970.
Infatti, si disse allora che << in considerazione delle
caratteristiche del carico, la nave prese le spedizioni con
l’obbligo di effettuare la navigazione con tempo e mare rispondenti
a caratteristiche prescritte >>; che << all’atto della partenza
della motonave "Fusina" (ore 21,15 del 16 gennaio 1970), le
condizioni meteorologiche non corrispondevano alle prescrizioni
dell’autorità marittima.
Infatti, un mare forza 4 – 5 in aumento non può assolutamente
considerarsi né favorevole né assicurato, per cui intraprendere e
proseguire la navigazione era nettamente in contrasto con le
prescrizioni date dal Registro navale italiano mediante fonogramma
ed annotate con inchiostro rosso sul ruolo di equipaggio
dell’autorità marittima >>.
Si chiede di sapere, quindi, perché venne consentito di caricare
4.000 tonnellate di blenda, minerale tanto più pericoloso in quanto
era stato esposto a violente e continue piogge, e perciò con una
percentuale di umidità eccessiva, su di una motonave che stazzava
soltanto 2.706 tonnellate, per giunta logora nelle strutture e
nell’apparato propulsore.
Gli interpellanti chiedono, infine, quali sono gli intendimenti del
Governo in merito al recupero del relitto, per accertare le vere
cause del tragico e misterioso sinistro attraverso l’ispezione
diretta della nave, tanto più che sono risultate inattendibili le
dichiarazioni, del resto contrastanti, dell’unico superstite. (interp.
– 369)
GIANQUINTO.
Domando di parlare.
PRESIDENTE.
Ne ha facoltà.
GIANQUINTO.
Onorevole Presidente, mi sembra che non occorra illustrare
l’interpellanza in esame perché essa reca in maniera abbastanza
specifica le varie questioni e le motivazioni della medesima.
In sostanza l’interpellanza vuole ottenere dal Governo una risposta
sulle cause del naufragio della << Fusina >>; cause non ipotetiche,
come si sono prospettate sinora, ma reali.
Ciò anche, fra l’altro, in adempimento a disposizioni precise recate
dalla circolare del Ministero della marina mercantile in data 8
gennaio 1963, ove, al punto 42, si dice: <<Nelle conclusioni
dell’inchiesta occorre precisare se il parere viene espresso
all’unanimità, a maggioranza o a parità di voti e dichiarare
nettamente e senza formule indecise o vaghe se il fatto sia avvenuto
per dolo o per colpa o per caso fortuito o di forza maggiore.
Nel caso di colpa si dovrà specificare se essa sia derivata da
negligenza, imprudenza, imperizia o inosservanza di regolamenti di
ordine o di disciplina da parte della persona preposta al comando
della nave o di uno o più membri dell’equipaggio.
Le conclusioni quindi devono essere il più possibile chiare e
concise.
Inoltre, ove per la morte di tutti i componenti l’equipaggio o per
la mancanza di altri elementi essenziali la commissione non possa
giungere ad alcuna conclusione definitiva sulle cause del sinistro e
sulle eventuali responsabilità, dovrà farlo rilevare dal verbale,
ciò che sarà sufficiente a dimostrare che il compito della
commissione è esaurito >>.
Con queste premesse, signor Presidente, ritengo di non aver niente
da aggiungere a ciò che è scritto nell’interpellanza e mi aspetto
una risposta concreta da parte del Governo perché l’opinione
pubblica veneziana e di Chioggia è ancora affranta dal disastro che
ha colpito questa nave e le diciotto famiglie dell’equipaggio.
Queste diciotto famiglie aspettano ancora di conoscere le cause
reali della morte dei congiunti.
PRESIDENTE.
Il Governo ha facoltà di rispondere all’interpellanza.
CAVEZZALI,
Sottosegretario di Stato per la marina mercantile.
Signor Presidente, onorevoli colleghi, come è noto, la motonave <<
Fusina >> il giorno 16 gennaio 1970, dopo aver ultimato il carico di
circa 3.900 tonnellate di blenda, lasciava la banchina di Porto
Vesme diretta a Porto Marghera e nel tardo pomeriggio del 18 gennaio
si presentava all’ufficio marittimo di Carloforte il marittimo
Freguja, imbarcato come cameriere sulla << Fusina >>, dichiarando
appunto di essere superstite dell’equipaggio di detta motonave la
quale era affondata circa un’ora dopo la partenza da Porto Vesme.
Questo il fatto al nostro esame.
Come è noto, la motonave << Fusina >> era stata costruita nel 1957
sotto la vigilanza del registro italiano navale dal cantiere
Pellegrino di Napoli per conto della società l’Italica di
navigazione.
Fu successivamente venduta alla società di navigazione Sant’Ambrogio
e da questa alla società Sava, che la sottopose ad alcuni lavori di
trasformazione.
Essa era in possesso di tutti i requisiti richiesti dalla
convenzione di Londra sulla sicurezza della vita umana in mare ed
aveva ottenuto la proroga della classe fino al 31 gennaio 1970,
mentre erano ancora in corso le visite di riclassifica che avrebbero
dovuto essere ultimate con il rientro a Venezia.
Le caratteristiche architettoriali della nave consentivano una
portata lorda di 4.275 tonnellate, alle quali corrispondeva, a pieno
carico, un dislocamento di 5.659 tonnellate.
Essa aveva imbarcato a Porto Vesme 3.940 tonnellate di blenda
flottata, di cui 1.100 tonnellate nella stiva n. 3, 2.230 tonnellate
nella stiva n. 2 e 610 tonnellate nella stiva n. 1.
La quantità di blenda imbarcata, 3.940 tonnellate, comportava un
dislocamento totale di 5.548 tonnellate, inferiore di tre tonnellate
a quello massimo consentito, per cui si può ritenere che il carico
rientrava nei limiti di capacità della nave.
La blenda imbarcata nelle stive n. 1 e n. 2, munite di cascio, aveva
un grado di umidità compreso fra il 12 e il 13 per cento, mentre
quella imbarcata nella stiva n. 3, non munita di cascio, aveva un
grado di umidità compreso fra il 7 e l’8 per cento.
Dalla voce dell’unico sopravvissuto, il cameriere di bordo Freguja
Ugo, si è appreso che egli fu svegliato verso le 22,30 e che, a
causa dell’inclinazione della nave, con molta fatica riuscì a
raggiungere la coperta, ove notò che l’unità era sbandata sulla
sinistra con il trincarino sott’acqua e che le onde avevano spezzato
i pannelli dei boccaporti per cui l’acqua di mare entrava nelle
stive.
Lo stesso testimone ha riferito che il comandante, dopo aver invano
tentato con l’equipaggio presente di mettere in mare la imbarcazione
di salvataggio, dispose l’abbandono della nave che in poco tempo si
inabissò.
La nave era dotata di mezzi di salvataggio, individuali e
collettivi, adeguati e conformi alle prescrizioni per la
salvaguardia della vita umana in mare.
Tuttavia è agevole presumere che i mezzi di salvataggio, costituiti
da due lance e da una zattera, non potettero nella circostanza
essere calati in mare, sia per lo sbandamento avvenuto quasi
improvvisamente della nave, sia per il successivo rapido
affondamento della stessa.
Il superstite ed i cadaveri recuperati erano invece tutti muniti di
giubbetti di salvataggio ed alcuni di essi anche di salvagente
anulare.
Il relitto della motonave << Fusina >> fu identificato attraverso
numerosi particolari, fra cui le caratteristiche generali dello
scafo, la posizione del piano e delle maniche a vento, la
disposizione e forma degli embrionali, la posizione di alcuni oblò e
le strutture della plancia.
Esso giace su un fondale piatto a 98 metri di profondità, abbattuto
sul lato sinistro con la prora rivolta verso nord-est.
L’unità appare priva di elica e con tre squarci di metri 3 per 4,
rispettivamente a prora, al centro ed a poppa, in corrispondenza dei
quali esistono profonde ingobbature fra le costole.
I rilievi effettuati dagli operatori della Marina militare non hanno
consentito di stabilire in modo preciso la natura delle ingobbature
e degli squarci osservati sul lato destro dello scafo.
Ciò in quanto la presenza di fango in sospensione nelle adiacenze
del relitto ha notevolmente limitato la possibilità di osservazione
da parte degli operatori medesimi; i quali, peraltro, dopo ben sei
immersioni con apposita torretta batoscopica, il cui impiego è stato
imposto dalla notevole profondità in cui era necessario operare,
hanno giudicato non suscettibili di maggiori risultati, mediante
ulteriori immersioni, le ricognizioni già eseguite.
Tuttavia è stato possibile accertare che il fondo marino sul quale
si è inabissato il relitto è di natura rocciosa e non sabbiosa, come
era dato presumere in un primo momento.
La constatazione, poi, che il relitto medesimo giace ai piedi di una
scarpata, anch’essa rocciosa, alta 25 metri, lascia ipotizzare una
dinamica dell’affondamento in virtù della quale potrebbero risultare
evidenti la natura e l’origine sia degli squarci che delle
ingobbature.
Tale circostanza ha, infatti, indotto la commissione di inchiesta
formale a ritenere che, con ogni probabilità, le falle e le
ingobbature rilevate sul fianco destro della nave siano state
prodotte dall’urto della fiancata stessa sul lembo superiore della
scarpata, ai cui piedi giace ora il relitto.
Dalle risultanze dell’inchiesta non sono emersi elementi idonei ad
accertare inequivocabilmente le ragioni che determinarono la rottura
dell’elica.
Tuttavia è da ritenersi del tutto attendibile che essa possa essere
stata originata da un urto o per effetto di sollecitazioni del tutto
anormali e di eccezionale violenza sulla linea d’assi.
Tale affermazione risulta, d’altra parte, pienamente coerente alla
dinamica di affondamento in precedenza ipotizzata, in quanto lascia
con sufficiente realismo presumere che, durante l’inabissamento del
relitto, l’elica sia venuta a contatto con qualche sporgenza della
scarpata.
Dopo aver chiarito tali dati ed elementi, relativi ad alcuni
particolari aspetti del sinistro di cui trattasi, desidero
soffermare l’attenzione sul punto centrale di tutto il problema e
cioè la individuazione della causa o del concorso di cause che hanno
determinato il naufragio della << Fusina >>.
Devo ricordare che la commissione di inchiesta formale, alla quale,
oltre ai membri previsti dal codice della navigazione, sono stati
aggregati due esperti in stivaggio e in condotta della navigazione,
appositamente designati dalle organizzazioni sindacali dei
marittimi, ha concluso i suoi lavori il 16 giugno 1970.
Da tali lavori è emerso che l’affondamento della motonave << Fusina
>> può ipotizzarsi avvenuto per spostamento del carico di blenda,
successivo ingavonamento della nave e conseguente allagamento delle
stive.
Tale ipotesi potrebbe considerarsi avvalorata anche dalla posizione
del relitto, che rivolge la prua verso Porto Vesme, e dalla
dichiarazione del superstite, che ricordava di aver notato da bordo
la luce del faro di Punta delle Oche sulla dritta di prora.
Il che, se esatto, fa supporre una manovra di inversione di rotta
compiuta dal comandante Catena che, accortosi dell’incipiente
ingavonamento, avrebbe tentato, nel perdurare di condizioni di tempo
avverse, di rientrare in porto.
Tale manovra, tuttavia, portando ad esporre all’azione del vento e
del mare il fianco sbandato della nave, potrebbe aver reso ancora
più precaria la stabilità della nave stessa, invasa dalle onde
continuamente irrompenti in coperta.
Nel corso dell’inchiesta formale è stato dichiarato che il
comandante della nave aveva deciso di partire, pur sapendo che sul
ruolo di equipaggio della nave stessa l’autorità marittima aveva
annotato l’obbligo della partenza soltanto con tempo e mare
assicurato, mentre le condizioni meteo-marine non erano
effettivamente tali, specie per intraprendere o comunque proseguire
il viaggio dopo l’uscita della nave dal canale di Porto Vesme.
Il pilota del porto ha dichiarato di avere prima della partenza e
poi stando a bordo, sconsigliato il comandante di partire e comunque
di proseguire il viaggio se non dopo la perturbazione in atto.
A spiegazione del complesso dei motivi che hanno pesato sulla
decisione del comandante Catena di intraprendere il viaggio, va
accennato alle considerazioni fatte dalla commissione inquirente,
basandosi su una lettera agli atti della società Monteponi e
Montevecchio, da cui si presume che tanto la società armatrice
quanto quella caricatrice avevano manifestato al comandante
interesse affinché la nave partisse, anche se non avesse completato
il carico, e concludesse il viaggio al più presto.
La commissione inquirente aggiunge, però, che il comandante Catena,
pur avendo intrapreso il viaggio, avrebbe potuto mettersi alla cappa
o dar fondo, non appena fuori del canale, in attesa del passaggio
della perturbazione in atto, ottemperando così in pieno alle
prescrizioni dell’autorità marittima e del Registro navale.
E’ da notare che la commissione medesima, pur ritenendo, a parere
unanime, che sia emersa dall’inchiesta l’imprudente valutazione, del
comandante Catena, delle condizioni meteo-marine nell’intraprendere
la navigazione, tuttavia ha espresso il giudizio che la
ricostruzione ipotetica del sinistro non consente di attribuire
piena responsabilità a chicchessia, in quanto mancano elementi per
stabilire con esattezza se la colpevolezza del comandante o la sua
scarsa prudenza abbia avuto o meno valore determinante nella causa
dell’evento dannoso.
Quanto infine all’ultimo punto dell’interpellanza, concordo con gli
interpellanti nel ritenere che soltanto con il recupero e
l’ispezione diretta della nave consentirebbero di accertare le vere
cause del tragico sinistro.
Tuttavia si deve prendere atto che la profondità di 98 metri, in cui
ora giace il relitto, nonché la natura del carico e lo stato del
mare, hanno indotto gli organi tecnici a giudicare problematico, se
non addirittura impossibile, il recupero stesso, almeno tenendo
conto dei mezzi di cui attualmente è possibile disporre.
Sicché, nelle condizioni attuali del relitto, non può l’autorità
marittima, in base all’articolo 507 del codice della navigazione,
provvedere all’assunzione del recupero di esso.
Il direttore marittimo di Cagliari, presidente della commissione
d’inchiesta sul sinistro marittimo in oggetto, ha trasmesso al
Procuratore della Repubblica gli atti dell’inchiesta formale in
ottemperanza a quanto prescritto dall’articolo 1241 del codice della
navigazione che fra l’altro precisa che il verbale d’inchiesta << ha
valore di rapporto >>.
Il Procuratore della Repubblica ha disposto l’apertura di
istruttoria per naufragio colposo in conformità delle conclusioni
dell’inchiesta.
Il Ministero fin dal 25 febbraio 1970 ha elaborato dettagliate
prescrizioni per lo stivaggio ed il trasporto di minerali flottanti
in modo da ovviare da parte del comando di bordo delle navi ad ogni
possibilità di scorrimento del carico.
Ha affidato altresì al proprio Ispettorato tecnico l’analisi di
tutti gli elementi emersi per ricerca di atti e documenti relativi
alla nave << Fusina >> e dei rapporti e delle dichiarazioni
richieste od ottenute da personale già imbarcato sulla nave in modo
da vagliarne a posteriori le possibili condizioni di efficienza.
L’Ispettorato tecnico ha confermato in data 21 dicembre 1970
l’attendibilità delle motivazioni della commissione d’inchiesta
circa la dinamica del sinistro.
Leggo le conclusioni dell’inchiesta, firmate da tutti i membri della
commissione: << La ricostruzione ipotetica del sinistro non può
ovviamente porre in grado la commissione di attribuire con certezza
responsabilità a carico di chicchesia.
A parere unanime della commissione unico elemento certo di
colpevolezza, e forse non determinante, che è emerso dalla presente
inchiesta è un’imprudente valutazione, da parte del comandante
C.L.C. Mario Catena, matricola 10856 di Venezia, delle condizioni
meteo-marine nell’intraprendere la navigazione con un carico della
cui pericolosità era perfettamente a conoscenza >>.
Il Ministero comunque si riserva di adoperarsi ulteriormente perché
il Ministero della difesa-marina possa, con la buona stagione e con
mezzi più idonei, far effettuare da nave appositamente equipaggiata
ulteriori immersioni con torretta batoscopica e in condizioni
migliori delle precedenti per dar luogo ad una nuova ricognizione
del relitto e del fondale circostante, anche se nel suo rapporto il
Ministero della difesa-marina ritiene che non siano conseguibile,
per motivi tecnici, risultati più soddisfacenti di quelli
precedentemente raggiunti.
GIANQUINTO.
Domando di parlare.
PRESIDENTE.
Ne ha facoltà.
GIANQUINTO.
– Onorevole Presidente, io devo dichiararmi purtroppo non
soddisfatto della risposta, perché rimangono ancora ipotetiche le
cause reali del sinistro, anche se si profila una responsabilità per
colpa del comandante della nave, sollecitato – questo è importante –
dalla società armatrice e dal vettore che insisteva perché la nave
giungesse di gran fretta a Venezia.
Rimane da risolvere il problema di fondo: quale è stata la causa
vera?
E soprattutto, quesito inquietante, bisogna pervenire
all’accertamento della natura degli squarci che sono sulla fiancata
opposta a quella sulla quale giace la nave.
Qual è il tipo di questi squarci?
E perché anche – altro quesito più inquietante del primo – ci sono
le ingobbature nella fiancata della nave?
Questa situazione è tale da far sospettare quasi che nelle stive non
ci sia stato soltanto il blenda ma qualcosa di esplosivo.
Infatti, se è vero che gli squarci non sono dovuti all’urto della
fiancata contro le rocce e dato che il blenda non è esplosivo,
rimane da risolvere il quesito: perché l’esplosione verificatasi
all’interno della stiva della << Fusina >>?
Ecco la ragione fondamentale della mia insoddisfazione: è l’avere
inteso ancora una volta il rifiuto – si può dire – di procedere al
recupero dello scafo, il cui esame soltanto può determinare la
certezza delle cause del sinistro.
Ora io nego che oggi, 1971, non ci possano essere apparecchi tecnici
capaci di sollevare un relitto che giace soltanto a novanta metri di
profondità.
Sarebbe stata un’impresa ardua con mezzi tecnici arretrati, ma allo
stato attuale vi sono dei pontoni tali che possono arrivare a
sollevare il relitto.
Signor Presidente, io voglio sperare che il Governo mantenga
l’impegno di tentare nuovamente il recupero del relitto, perché
soltanto così si può dare una risposta che legittimamente le
famiglie dei naufraghi attendono.
Esse vogliono sapere la vera causa di questo grande disastro che ha
colpito la famiglia marinara di Venezia e di Chioggia.
Abbiamo fatto un passettino avanti rispetto alla risposta che il
Governo ci ha dato circa un anno fa, giacché apprendo che la
commissione ha potuto acquisire agli atti una lettera della società
armatrice della nave che sollecitava il rientro a Venezia della nave
stessa.
E’ stata indubbiamente questa spinta, è stato questo richiamo,
questo sollecito, forse questo ordine della società armatrice della
nave e del vettore a determinare l’imprudenza colpevole del
comandante della nave di prendere il largo nonostante le condizioni
proibitive del tempo.
Signor Presidente, finisco col chiedere: se l’autorità marittima di
Porto Vesme accertò che le condizioni del mare non davano
affidamento di sicurezza, perché non ha impedito la partenza della
nave?
Qui può profilarsi una responsabilità anche delle autorità marittime
locali.
A nulla vale annotare con l’inchiostro rosso sul libro di bordo che
con un mare forza 4 – 5 il viaggio non è sicuro senza prendere il
provvedimento di impedire la partenza della nave.
Questa è un’ulteriore ragione per cui io ribadisco la mia
insoddisfazione per la risposta del Governo all’interpellanza.
PRESIDENTE.
Lo svolgimento delle interpellanze è esaurito. |