Domenica
18 gennaio 1970 è una giornata serena, con temperatura
mite e senza vento. Libero dalla guardia, rassetto lo
stipetto e le mie cose personali; nel pomeriggio esco in
franchigia, con i miei colleghi, in giro per la città.
Cagliari sta vivendo un momento sportivo magico ed
eccitante : la squadra di calcio, i rossoblu guidati da
Gigi Riva, sono in testa al campionato davanti alla
Juventus. La città esprime con orgoglio e calore la sua
vicinanza alla squadra ed in particolare al suo
capitano. Le foto di Gigi Riva, di tutte le dimensioni,
sono dappertutto: da via Roma alle altre strade che
salgono dal lungomare; c’è un distributore di benzina,
appena fuori del porto, che ne è letteralmente
tappezzato. Oggi non c’è molta agitazione: la squadra
rossoblu è in trasferta. Ci fermiamo in un bar a
prendere qualcosa e per telefonare a casa. Parliamo dei
recenti fatti della vita di bordo, dei nostri progetti
futuri e, intanto, non possiamo fare a meno di
constatare che, per noi militari, la vita qui a Cagliari
è molto meglio di quando eravamo a Taranto, dove
purtroppo, essendo i militari davvero tanti, il
comportamento della gente era diverso.
Qui sono molto cordiali e gentili, anche con quelli in
divisa, come noi, che sono trattati pari pari come tutti
gli altri.
Rientriamo a bordo per la cena, e già il piantone,
smarcandoci sul brogliaccio di poppa, ci informa sulle
voci di una imminente uscita per un’emergenza. I
motoristi, poi, confermano che la girobussola è stata
messa in funzione, segno inequivocabile di “pronti a
muovere”.
L’ordine ufficiale arriva dopo cena, poco dopo le 20 :
si partirà fra due, tre ore al massimo. Alcuni di noi
escono a fare il giro dei locali, pizzerie, trattorie e
cinema per richiamare a bordo quanti sono in franchigia.
Pensiamo si tratti di dare assistenza ad un’altra nave
in difficoltà, come era successo domenica scorsa, quando
siamo usciti in tutta fretta la mattina, fino quasi a
Capo Carbonara, dove c’era un mercantile fortemente
inclinato sulla sinistra e lo abbiamo scortato fino
dentro il porto, che era ormai sera.
Alle 23 viene battuto il posto di manovra generale.
Salgo in coperta a poppa, in tenuta da lavoro e con il
giubbotto da navigazione. Non fa freddo, c’è una
bellissima luna, alta, nel cielo stellato, che illumina
e facilita le operazioni.
Breve assemblea a poppa, con Capo Cannone, che assegna
ad ognuno le mansioni da svolgere durante la manovra.
Questa volta sono telefonista in plancia, ed ho così
modo si seguire le varie fasi della manovra proprio
accanto al comandante. Il mio compito è di trasmettere i
suoi ordini alla rete di manovra e le relative risposte.
E’ un’esperienza nuova ed interessante perché ho modo di
vedere da vicino il gran lavoro, coordinato e
sincronizzato, svolto praticamente da tutto
l’equipaggio, per far muovere una grossa nave come
questa.
In plancia sono presenti : l’Ufficiale delle
Telecomunicazioni, il Capo segnalatore, il segnalatore
del posto di manovra, il telefonista di macchina ed un
altro operatore che comunica direttamente con il locale
timoneria, attraverso un semplicissimo mezzo di
comunicazione : un tubo metallico le cui estremità sono
allargate a cono.
Il “Secondo” dà l’attenti, quando arriva il Comandante –
che per noi dell’equipaggio è il «Number-One» - il
Capitano di Fregata Maurizio Barbieri, che saluta e
prende posto sulla plancetta di dritta. Alto e asciutto
– come la sua parola - sui cinquantacinque ad occhio,
giubbotto di navigazione, bavero rialzato, cannocchiale
a tracolla, berretto di panno blu con i gradi, guanti di
pelle marrone e l‘immancabile pipa tra i denti. Tra il
brusio della radio, delle carte nautiche che si
dispiegano e si consultano, con calma serafica se
l’accende riempiendo la plancia di fumo azzurrognolo
dall’inconfondibile sentore. Rimette con cura nella
tasca del giubbotto la borsetta del tabacco - uno
sguardo agli ufficiali per raccogliere la conferma che
tutto sia a posto - e dà quindi inizio alla manovra.
«Domando come sono le macchine»
Sono da alcuni minuti passate le 23.
Dal buio, appena rischiarato dal raggio fosforescente
delle scansioni del tubo a 13” del P.P.I. (cioè quello
che il radar aereo “vede” tutt’intorno alla nave), il
telefonista di macchina risponde : «Macchine provate e
pronte!».
Il Capo Segnalatore prova sirena e fischio, con esito
positivo.
Il Comandante ordina : «Timoniere barra al centro» e
poco dopo :
«Macchine attenzione alla manovra».
Nel frattempo procedono le operazioni di alleggerimento
dei cavi a prora e a poppa.
Nelle pause tecniche per le esecuzioni degli ordini,
sento dagli ufficiali in plancia, i primi dettagli sui
motivi della precipitosa partenza.
Vengo così a conoscenza che siamo diretti verso l’isola
di Sant’Antioco, in SVH (salvamento naufraghi) alla
ricerca di marinai dati per dispersi, di una nave,
partita da Porto Vesme venerdì sera e diretta a Venezia,
e affondata poco dopo a causa del mare in tempesta.
L’«Altair» inizia a muoversi all’ordine di «Poppa
molla!» che libera l’ultimo cavo che la lega alla bitta
della banchina, cui fa seguito il definitivo: «Prora
spara!».
Poco dopo si sente distintamente il colpo secco della
mazza, con la quale il nostromo apre il gancio a scocco,
facendo precipitare in mare il corpo morto che
tratteneva la nave in posizione. Il cavo schizza
attraverso la bocca di lancio, sibilando come un
proiettile, ed il nostromo può comunicare : «Prora
libera!».
All’ordine :«Macchine pari avanti adagio» le due grosse
eliche fanno ribollire l’acqua tutto attorno a poppa e,
sempre verificando la prua ed il ripetitore di
girobussola che gli è davanti, ordina : «Dieci gradi di
barra a sinistra».
Ci apprestiamo a superare il primo sbarramento in uscita
del porto.
«Macchine pari avanti mezza» e dopo alcune decine di
metri, stringe l’accostata con : «Altri cinque gradi di
barra a sinistra». Ritenendola sufficiente, fa rimettere
la barra al centro dirigendosi verso il secondo
sbarramento, che costituisce l’entrata e l’uscita del
porto di Cagliari.
Ora siamo in mare aperto e, con altri due precisi ordini
al timoniere, viene impostata la rotta per uno-nove-zero.
La manovra è terminata con l’ordine : «Macchine cessa
attenzione alla manovra».
Per il personale di coperta, la manovra cessa alcuni
minuti dopo, quando l’interfono annuncia : «Cessa posto
di manovra.Terzo grado di approntamento, prima squadra a
posto».
Sono le 23,30 e monto direttamente di vedetta a
sinistra. Fatto insolito per la navigazione in terzo
grado, stavolta siamo due vedette a sinistra e due a
dritta, a conferma dell’eccezionalità della missione che
stiamo eseguendo.Gli orari dei turni di vedetta sono
prefissati e durano quattro ore ciascuno.Questo mio
turno dura solo mezzora, fino alla mezzanotte. Ho modo
di apprendere in questo tempo altri dettagli della nave
affondata. Era una motonave veneziana, si chiamava
“Fusina” ed era diretta a Venezia con un carico di
minerale di piombo (o di zinco). A bordo vi erano 19
uomini di equipaggio, e l’allarme è stato dato da uno
dei naufraghi che si è salvato raggiungendo a nuoto la
costa; non si sa nulla degli altri marinai dati per
dispersi. Si spera di trovare ancora qualche superstite.
Ieri, domenica, due elicotteri dell’esercito, usciti in
perlustrazione, hanno avvistato due salvagenti e
numerosi altri rottami di legno, di teli, buatte, che
galleggiavano in una zona di mare al largo dell’isola di
Sant’Antioco e all’isola di S. Pietro. Fra le cause del
naufragio si parla di un mare molto forte che ha
spostato il carico della nave facendola
irrimediabilmente inclinare.
Al cambio della guardia, a mezzanotte, mi portano un
sorso di “Cordiale”, scendo le scalette esterne, verso
poppa, destinazione “branda” per il breve riposo che mi
spetta; il mare sembra una tavola, il vento si sente
appena.
Lunedì 19 gennaio, alle 8,00 ritorno al mio posto di
vedetta in alto a sinistra della plancia comando,
assieme ad un altro mio collega “EM”.Il cielo è sereno
il mare è pressochè piatto, il sole si è appena alzato
dalle brume sopra l’orizzonte. Siamo sempre due vedette
per ogni lato, dotate di ottimi binocoli ciascuna e,
costantemente, gli Ufficiali in plancia, ci ripetono di
tenere bene gli occhi ben aperti e di segnalare subito
qualsiasi cosa che notiamo in mare : anche un semplice
pezzo di legno.
Ci spiegano che è molto probabile che in quella zona,
come segnalato dagli elicotteri, ci siano, spinti dalle
correnti marine, dei corpi dei naufraghi, che possono
riemergere d’improvviso anche dopo molte ore dal
naufragio.
Stiamo perlustrando a velocità molto bassa, la zona di
mare davanti alle coste meridionali dell’isola di S.
Pietro. Più a nord rispetto a noi, incrocia l’altra
fregata, l’«Andromeda» verso costa a qualche centinaio
di metri c’è il rimorchiatore «Atleta» quindi ancora più
in là la motovedetta «CP-306» della Capitaneria di Porto
di Cagliari e sotto costa, quasi al limitare della
scogliera alcune piccole barche a remi.
Noi a causa del pescaggio più profondo, non ci
avviciniamo oltre il limite di circa mezzo miglio o poco
meno dalla ripida scogliera che il sole illumina
gradualmente fino ad un bel colore brunastro. Ha
un’altezza regolare attorno ad una decina di metri,
sembra quasi una muraglia, alla cui base a mo’ di
bagnasciuga, vi sono grossi sassi e spuntoni di roccia,
fra i quali due piccole barche a remi cercano con
attenzione di insinuarsi. Incontriamo diversi oggetti
galleggianti, quasi sicuramente appartenenti alla nave
naufragata, che noi vedette puntualmente segnaliamo.
Qualcuno di questi viene raccolto a bordo e sistemato a
prua.
Verso le 11 accade l’episodio pietoso e in qualche modo
atteso - perché quello era il nostro compito - e che,
essendo per me la prima volta, non riuscirò mai più a
dimenticare. In quel momento nel corso del nostro lento
andirivieni, stavamo navigando verso nord, quando vedo
nel cannocchiale, a sinistra per ore 10, una macchia
rossastra, non molto grossa a poco più di un centinaio
di metri.
Avviso subito l’Ufficiale in plancia e subito tutti i
binocoli sono puntati su quel punto. L’ufficiale ordina
di accostare per identificare l’oggetto galleggiante. In
plancia arrivano altri ufficiali ed anche il «Secondo»,
il Tenente di Vascello Claudio Delise. Giunti a poche
decine di metri, abbiamo la certezza che quella macchia
è la schiena di un uomo, di un naufrago. E’
completamente svestito, galleggia a faccia in giù, e in
trasparenza si vedono le braccia e le gambe leggermente
piegate. La nave viene manovrata per mettersi sopravento
e iniziare le operazioni di ricupero.Sembra, l’Altair,
una grande mano che, con umana pietà, raccoglie lo
sfortunato marinaio per deporlo tra le braccia dei suoi
familiari. Tanto dolore può essere così, almeno in parte
attenuato dal ritrovamento del corpo. Spero sia così
anche per gli altri marinai, che non sono riusciti a
salvarsi, e che in tanti qui stiamo cercando.
Il «Secondo» annuncia dalla “rete ordini collettivi” :
«prepararsi per recupero naufrago sul lato sinistro».Poi
imbocca di slancio la scaletta e si precipita giù a
centrosinistra. Viene messa mare la rete naufraghi.
Tutti a bordo seguono in rispettoso silenzio, le fasi
del recupero : chi a prora, chi a poppa o sulle virole
in tuga, sempre pronti comunque a intervenire in caso di
bisogno.
Assieme al «Secondo» scende a pelo d’acqua il nocchiere
Cartolina, un ragazzo siciliano, robusto e sempre
cortese, esperto marinaio in quanto da civile lavorava
in un peschereccio a Mazara del Vallo.
(A proposito del nocchiere Cartolina, qui nel mio
diario, ho inserito una nota, scritta alcuni mesi più
tardi, nell’estate del 1970, quando a bordo, ci arrivò
la notizia che, proprio il nocchiere Cartolina, era
morto nel naufragio del suo peschereccio, nel canale di
Sicilia).
Avvicinano il corpo alla rete, e con l’aiuto di una cima
e a forza di spalle lo issano a bordo. E’ un uomo sui
trenta trentacinque anni, dalla corporatura robusta,
dalla faccia larga e con i capelli corti e neri, la
pelle è gonfiata per le quasi 60 ore trascorse in mare.
Presenta diverse ecchimosi e piccole ferite un po’ su
tutto il corpo, i segni dell’impari e fatale lotta con
le onde; ha una grossa macchia nera sulla fronte vicino
alla tempia sinistra.Viene ricomposto sulla barella
avvolto in un lenzuolo e portato tra i due carabottini
di poppa.
Un piantone viene messo a vegliarlo, in segno di
rispetto; la poppa deve rimanere completamente libera.
La navigazione è ripresa sempre con le macchine al
minimo; sottobordo continuano a passare con una certa
frequenza, rottami di ogni tipo : pezzi di paratie, di
porte con maniglie e un pezzo di tela che potrebbe
essere parte di una bandiera. Dagli operatori di
plancia, che sono in collegamento via radio con le altre
unità, sento che sono stati recuperati già altri due
corpi.
Per il momento quindi solo uno è vivo e salvo, per gli
altri comincio a capire che più il tempo passa, meno
sono le speranze di trovarne ancora qualcuno in vita.
Tengo gli occhi fissi nel binocolo, guardando il mare
davanti a noi. Ora è calmo e senza vento; provo a
immaginare cosa possa essere successo quella sera di
venerdì scorso, su questo stesso mare, per provocare una
simile tragedia. Dev’essere stato terribile.
Nel pomeriggio si accosta sottobordo, a centro dritta,
la «CP-306» per il trasbordo del naufrago: viene
adagiato a prora, accanto ad altri corpi già ricuperati
e ricoperti parzialmente – per la premura di portarli a
terra - da teli. Al tramonto gettiamo l’ancora nel golfo
di Palmas al largo della cittadina di Sant’Antioco. A
indicarla c’è una lunga linea orizzontale di luci, tutte
in fila.
Sono di guardia dalle 8 a mezzanotte, assieme al
Sottocapo EM Beppe Conte, (un V-6 da Napoli, molto in
gamba, ma poco sensibile alla disciplina militare).
L’Ufficiale di Guardia in plancia è il Direttore del
tiro, il Tenente di Vascello Ermirio, che è anche il
nostro capo reparto.
Parliamo naturalmente dell’affondamento della nave.
Il Sig. Ermirio, è molto addolorato per quei marinai
morti. Ci dice che, sono passati ormai troppi giorni dal
naufragio e, anche a causa del ritardo con il quale è
stato dato l’allarme, le speranze ormai di ritrovare
qualche superstite, sono purtroppo pochissime. Dovevamo
essere qui – continua con sincera partecipazione - nelle
ventiquattr’ore successive al naufragio e, quasi
sicuramente li potevamo salvare tutti quanti. Sui motivi
che hanno provocato l’affondamento del mercantile, ci
ricorda che in questi mesi di gennaio, febbraio e marzo,
soffiano sui mari e sulle coste occidentali della
Sardegna, dei venti maledetti, che mettono in grande
difficoltà ogni tipo di imbarcazione.
Ci viene portato del tè caldo, molto gradito; osserviamo
i fanali di via di una motobarca che scosta dall’Altair
per andare a terra a fare scorta di viveri.
All’alba, tolti gli ormeggi, usciamo dal Golfo di Palmas,
passando tra l’isola «la Vacca» e quella detta «il Toro»
(due piccole isolette disabitate, battezzate così,
chissà da chi e perché!) accostiamo a dritta andando a
riprendere la nostra posizione di ricerca a sud ovest
dell’isola di S. Pietro.
Verso le ore 11 vediamo l’«Atleta», che è tra noi e la
costa, gettare a mare, sul lato sinistro, la rete
naufraghi : capisco il motivo ed un velo di tristezza mi
fa abbassare gli occhi. E’ un nuovo dolore, alleviato
però dal pensiero che un altro corpo, un altro uomo avrà
una degna sepoltura, un luogo per i suoi familiari per
poter piangere e pregare, portare un fiore e ricordare
chi il mare ha strappato alla vita.
Siamo in fila a centro-sinistra per la mensa equipaggio
a pranzo, quando, grazie ai radiotelegrafisti, si
diffonde la voce che il corpo appena recuperato era di
un ragazzo di 15-16 anni, forse al suo primo imbarco.
Povero ragazzo!
Due elicotteri della base di Decimomannu collaborano
alle ricerche. Ora hanno lanciato in mare un razzo di
segnalazione di tipo «Very» circa un miglio di prora. Ci
portiamo sul posto pensando si tratti di un altro
naufrago, ma è un falso allarme, si tratta solo di
alcune tavole di legno.
Verso il tramonto stiamo rastrellando la zona di mare
tra l’isola del «Toro» e l’isola «La Vacca», prima di
riprendere la rotta per Cagliari. Passiamo e ripassiamo
a bassa velocità tra queste due piccole isole senza
scorgere alcun naufrago.Si vede che stava ritornando in
superficie molto lentamente, perché è apparso
all’improvviso, a meno di cento metri da noi, sulla
dritta, in un punto in cui eravamo ripassati almeno
cinque o sei volte prima.
Galleggia sul dorso, le braccia distese e la faccia al
cielo. Sono sulla virola in tuga mentre viene
recuperato. Tra i più attivi per il recupero: il
nocchiere Cartolina, che naturalmente guida le
operazioni, c’è Franzo, veneziano di Jesolo, il Sgt.
Carro di La Spezia, e tanti altri che con coraggio
davvero ammirevole si prodigano in ogni sforzo per
issarlo velocemente in coperta e scongiurare il pericolo
che torni sotto.
E’ una visione pietosa e desolante: la cruda immagine
della morte!E’ un uomo magro, sulla sessantina, con
pochi capelli grigi, gli occhi sprofondati dentro le
orbite violacee. Le mani sono giallastre come i piedi
scalzi. Al polso sinistro ha ancora legato il fischietto
di salvataggio, all’anulare sinistro una fede nuziale.
Appena viene toccato, la pelle si lacera, tanto è
lessata dal mare, sembra che le ossa vi nuotino
all’interno. Ha ancora indosso il giubbotto salvagente
di colore arancio, gonfiato, i pantaloni di tela di un
colore scuro, lasciano scoperta la pancia fortemente
gonfiata, con numerose ecchimosi e dei fori nerastri qua
e là, forse il becco dei gabbiani.
Viene avvolto in un lenzuolo, con qualche difficoltà
perché – dopo tutti questi giorni che è in mare - è al
limite della decomposizione; è adagiato in una barella e
portato a poppa dietro la virola del 33. Un piantone
viene messo di guardia, fino all’arrivo a Cagliari. Qui,
salgono a bordo un medico ed un fotografo per i primi
rilievi.Occorre un altro lenzuolo per contenere il corpo
che ormai si sta sciogliendo, quindi viene messo in una
cassa di zinco e, con Podda davanti ed io dietro, sulla
passerella, lo portiamo a terra, dove ci attende un’autobara.
Il giorno dopo riprendiamo il mare per ritornare nella
zona di ricerca. La zona delle ricerche è ora molto
ampliata : siamo molto lontani anche dalle altre navi.
Non succede niente di rilevante fino al termine della
settimana, rientriamo a Cagliari nella serata di sabato
24 gennaio.
Domenica mattina, dopo l’assemblea a poppa, inizia il
posto di lavaggio.
Dopo una settimana in mare occorre lavare, con l’acqua
dolce, tutte le sovrastrutture dal salso marino.
Capo Cannone – responsabile di tutte le operazioni in
coperta, è una pasta d’uomo. Parmense della Val di Taro
- vicino alla pensione - stamane è particolarmente
pignolo e, per convincere i più dubbiosi, recita la
parte del finto burbero.
Gira continuamente da poppa a prora, fischietto sempre
pronto, ricordando a tutti, con piglio severo, che:
“oggi il posto di lavaggio è continuato ed aggravato!”.
Stamattina la vedo dura per i soliti imboscati...
Chi con la manteca a lucidare gli ottoni, chi con la
redazza e altri con le manichette dell’acqua dolce,
rimettiamo a nuovo tutta la coperta, la tuga, fin dove è
possibile spingerci. Si finisce che è già l’ora della
mensa equipaggio!
Per fortuna alle ore 14,30 c’è il «Franchi in riga a
poppa».
Qualche ora in franchigia con i colleghi EM, Basile,
Fanni e Lombardi: il solito giro per le vie a saliscendi
del centro è una salutare boccata d’aria.
Lunedì mattina si riparte di buon’ora. Si va alla
ricerca dello scafo del “Fusina”. L’operazione “recupero
naufraghi” almeno per noi, è terminata, anche se –
purtroppo - si parla che manchino all’appello ancora
tanti marinai di quell’equipaggio!
Chissà se riusciranno a ritrovarli.
Martedì 27 siamo sulla zona di mare a ovest dell’isola
di S. Pietro.
Sono di vedetta – singola, non più in coppia – a
sinistra. Il mare è increspato, il cielo è coperto :
scrosci di pioggia ci accompagnano per tutta la
mattinata.
Dalla plancia arriva l’inconfondibile segnale, continuo,
dell’ecogoniometro che scandaglia il fondo marino. Il
suo rumore è un «tuit» cadenzato come un metronomo, che
si ripete ogni due-tre secondi. Verso mezzogiorno si
sente, fra un «tuit» ed il successivo, un debole segnale
di ritorno. E’ sicuramente un oggetto metallico che fa
rimbalzare il segnale, forse è lo scafo del “Fusina”.
Gli operatori radaristi e gli ufficiali, prendono nota
di ogni segnalazione, facendo continuamente il punto
nave.
Mercoledì mattina avviene la localizzazione definitiva
del relitto: il segnale di ritorno dell’ecoscandaglio è
forte e nitido e si sovrappone quasi perfettamente a
quello di emissione. Siamo fermi sulla verticale dello
scafo sommerso, sul punto presumibile dove è iniziata la
tragedia con l’inabissamento del mercantile.
La costa dell’isola di S.Pietro non è molto distante.
Vengono rilevate, e scrupolosamente verificate, alla
presenza di «Number-One», la latitudine, longitudine e
profondità.
Sul posto rimane la nave da salvamento «Proteo», dotata
di sommozzatori e telecamere subacquee per perfezionare
le ricerche.
Il nostro lavoro è completato. A bordo, la tensione si
va via via stemperando.
Nel viaggio di ritorno a Cagliari, mentre osservo con
calma le bellezze della costa meridionale, ho modo di
fare un breve bilancio di questo mese di gennaio che sta
per finire. Sull’Altair, tra Vigi-Pesca, ed emergenze
varie, sono al diciottesimo giorno di navigazione e non
è ancora finito il mese!
Doppiato il profilo roccioso di Capo Teulada, sulla
sinistra scorre ora un paesaggio incantevole che si
specchia nel mare cristallino.
Ci accompagnano così – con il sole che va scomparendo
nell’orizzonte a poppa - le bellezze naturali della
Sardegna, fino all’ingresso del Golfo di Cagliari.
Qui, inaspettatamente, c’è mare lungo che, accostando a
sinistra, lo prendiamo di traverso.
In plancia, si fanno miracoli di equilibrio!
Il rollìo è forte, siamo sballottati da una paratìa
all’altra: brogliacci, fogli, matite sbattono a terra e
cominciano a rotolare seguendo le oscillazioni della
nave.
Una rollata più forte fa fermare l’ago dell’indicatore,
in centrale, a poco meno di 30° ! Si balla! Non c’è un
posto per stare tranquilli.
Si va a soli 6 nodi - pari avanti mezza - e questo
allunga i tempi per arrivare in porto. Il «mare lungo»
cessa solo davanti alla prima diga d’ingresso.
Il posto di manovra è – comprensibilmente stavolta - un
po’ più lungo e laborioso del solito.
A poppa, folate di vento impediscono, a più riprese, al
lanciasagole di far giungere in banchina il “sacchetto”
per passare a terra il cavo di ormeggio; la poppa inizia
a scarrocciare, occorre rimettere le macchine avanti e
ripetere l’operazione.
Lo spazio di manovra fra le due unità già ormeggiate, è
poco : un vento sostenuto ed imprevedibile ci costringe
a manovrare con prudenza e attenzione.
L’Altair si ormeggia, infine, a tarda sera, alla
banchina Ichnusa, concedendo a tutto il suo equipaggio,
una meritata notte di riposo.
Armando Berti |