A cura di Salvatore Borghero Rodin

     

 

 
 

A cura di Salvatore Borghero Rodin - Racconto a puntate sui principali eventi che hanno dato vita alla grande storia di Carloforte e dell'Isola di San Pietro

Indice generale della rubrica "La grande Storia di Carloforte"

 

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16.01.2010 - Fusina - Nel 40° anniversario della tragedia che toccò il cuore dei Carlofortini
   

La tragedia del Fusina

Nona parte

Dal diario di bordo
dell’EM Berti Armando
su Nave Altair della Marina Militare italiana

 

Gennaio 1970: recupero naufraghi del cargo “Fusina”,
zona di mare dell’isola di San Pietro, Sardegna sud occidentale

In quel periodo stavo svolgendo il servizio di leva nella Marina Militare italiana, a bordo della Fregata «Altair», sigla: «F 591», di base a Cagliari.

Erano già passati otto mesi di “naja” sui 24 previsti, e quel gennaio ’70 è stato sicuramente il mese di maggior attività in mare e di esperienze vissute. Un mese indimenticabile!

Dopo aver fatto il “C.A.R.” ed il corso di Elettromeccanico (EM, addetto alle apparecchiature di acquisizione del bersaglio e teleguida dei pezzi) a Taranto, ho avuto il primo imbarco sull’incrociatore lanciamissili «Impavido» - «D 570» che aveva base sempre a Taranto.

Causa grandi lavori della nave, a fine ’69, gran parte dell’equipaggio venne sbarcato e per me ci fu il movimento per “Nave Altair”.

Salii a bordo dell’Altair, ancorato alla banchina «Ichnusa» nel porto di Cagliari, la mattina di martedì 30 dicembre 1969.

Nave Altair – una fregata di costruzione americana, lunga 93 metri ca. larga 11 - era al comando del Capitano di Fregata Maurizio Barbieri e faceva parte della 6a. Squadriglia Fregate- assieme alle gemelle «Andromeda» ed «Aldebaran»; l’ufficiale in seconda – comunemente chiamato «il Secondo» - era il Tenente di Vascello Claudio Delise.

A bordo eravamo circa 100-110 persone fra equipaggio ed Ufficiali.

L’attività principale di queste navi era la Vigilanza Pesca (Vi-Pe), cioè compiti di pattugliamento e di vigilanza a pescherecci italiani, nel canale di Sardegna e canale di Sicilia, giù fino a tutto il Golfo di Hammamet, costa orientale della Tunisia.

Nel gennaio ’70 avevo il grado di “EM Scelto” e successivamente “Sottocapo EM” e, infine “Sergente EM”.

 

Domenica 18 gennaio 1970 è una giornata serena, con temperatura mite e senza vento. Libero dalla guardia, rassetto lo stipetto e le mie cose personali; nel pomeriggio esco in franchigia, con i miei colleghi, in giro per la città.

Cagliari sta vivendo un momento sportivo magico ed eccitante : la squadra di calcio, i rossoblu guidati da Gigi Riva, sono in testa al campionato davanti alla Juventus. La città esprime con orgoglio e calore la sua vicinanza alla squadra ed in particolare al suo capitano. Le foto di Gigi Riva, di tutte le dimensioni, sono dappertutto: da via Roma alle altre strade che salgono dal lungomare; c’è un distributore di benzina, appena fuori del porto, che ne è letteralmente tappezzato. Oggi non c’è molta agitazione: la squadra rossoblu è in trasferta. Ci fermiamo in un bar a prendere qualcosa e per telefonare a casa. Parliamo dei recenti fatti della vita di bordo, dei nostri progetti futuri e, intanto, non possiamo fare a meno di constatare che, per noi militari, la vita qui a Cagliari è molto meglio di quando eravamo a Taranto, dove purtroppo, essendo i militari davvero tanti, il comportamento della gente era diverso.

Qui sono molto cordiali e gentili, anche con quelli in divisa, come noi, che sono trattati pari pari come tutti gli altri.

Rientriamo a bordo per la cena, e già il piantone, smarcandoci sul brogliaccio di poppa, ci informa sulle voci di una imminente uscita per un’emergenza. I motoristi, poi, confermano che la girobussola è stata messa in funzione, segno inequivocabile di “pronti a muovere”.

L’ordine ufficiale arriva dopo cena, poco dopo le 20 : si partirà fra due, tre ore al massimo. Alcuni di noi escono a fare il giro dei locali, pizzerie, trattorie e cinema per richiamare a bordo quanti sono in franchigia.

Pensiamo si tratti di dare assistenza ad un’altra nave in difficoltà, come era successo domenica scorsa, quando siamo usciti in tutta fretta la mattina, fino quasi a Capo Carbonara, dove c’era un mercantile fortemente inclinato sulla sinistra e lo abbiamo scortato fino dentro il porto, che era ormai sera.

Alle 23 viene battuto il posto di manovra generale. Salgo in coperta a poppa, in tenuta da lavoro e con il giubbotto da navigazione. Non fa freddo, c’è una bellissima luna, alta, nel cielo stellato, che illumina e facilita le operazioni.

Breve assemblea a poppa, con Capo Cannone, che assegna ad ognuno le mansioni da svolgere durante la manovra. Questa volta sono telefonista in plancia, ed ho così modo si seguire le varie fasi della manovra proprio accanto al comandante. Il mio compito è di trasmettere i suoi ordini alla rete di manovra e le relative risposte.

E’ un’esperienza nuova ed interessante perché ho modo di vedere da vicino il gran lavoro, coordinato e sincronizzato, svolto praticamente da tutto l’equipaggio, per far muovere una grossa nave come questa.

In plancia sono presenti : l’Ufficiale delle Telecomunicazioni, il Capo segnalatore, il segnalatore del posto di manovra, il telefonista di macchina ed un altro operatore che comunica direttamente con il locale timoneria, attraverso un semplicissimo mezzo di comunicazione : un tubo metallico le cui estremità sono allargate a cono.

Il “Secondo” dà l’attenti, quando arriva il Comandante – che per noi dell’equipaggio è il «Number-One» - il Capitano di Fregata Maurizio Barbieri, che saluta e prende posto sulla plancetta di dritta. Alto e asciutto – come la sua parola - sui cinquantacinque ad occhio, giubbotto di navigazione, bavero rialzato, cannocchiale a tracolla, berretto di panno blu con i gradi, guanti di pelle marrone e l‘immancabile pipa tra i denti. Tra il brusio della radio, delle carte nautiche che si dispiegano e si consultano, con calma serafica se l’accende riempiendo la plancia di fumo azzurrognolo dall’inconfondibile sentore. Rimette con cura nella tasca del giubbotto la borsetta del tabacco - uno sguardo agli ufficiali per raccogliere la conferma che tutto sia a posto - e dà quindi inizio alla manovra.

«Domando come sono le macchine»

Sono da alcuni minuti passate le 23.

Dal buio, appena rischiarato dal raggio fosforescente delle scansioni del tubo a 13” del P.P.I. (cioè quello che il radar aereo “vede” tutt’intorno alla nave), il telefonista di macchina risponde : «Macchine provate e pronte!».

Il Capo Segnalatore prova sirena e fischio, con esito positivo.

Il Comandante ordina : «Timoniere barra al centro» e poco dopo :

«Macchine attenzione alla manovra».

Nel frattempo procedono le operazioni di alleggerimento dei cavi a prora e a poppa.

Nelle pause tecniche per le esecuzioni degli ordini, sento dagli ufficiali in plancia, i primi dettagli sui motivi della precipitosa partenza.

Vengo così a conoscenza che siamo diretti verso l’isola di Sant’Antioco, in SVH (salvamento naufraghi) alla ricerca di marinai dati per dispersi, di una nave, partita da Porto Vesme venerdì sera e diretta a Venezia, e affondata poco dopo a causa del mare in tempesta.

L’«Altair» inizia a muoversi all’ordine di «Poppa molla!» che libera l’ultimo cavo che la lega alla bitta della banchina, cui fa seguito il definitivo: «Prora spara!».

Poco dopo si sente distintamente il colpo secco della mazza, con la quale il nostromo apre il gancio a scocco, facendo precipitare in mare il corpo morto che tratteneva la nave in posizione. Il cavo schizza attraverso la bocca di lancio, sibilando come un proiettile, ed il nostromo può comunicare : «Prora libera!».

All’ordine :«Macchine pari avanti adagio» le due grosse eliche fanno ribollire l’acqua tutto attorno a poppa e, sempre verificando la prua ed il ripetitore di girobussola che gli è davanti, ordina : «Dieci gradi di barra a sinistra».

Ci apprestiamo a superare il primo sbarramento in uscita del porto.

«Macchine pari avanti mezza» e dopo alcune decine di metri, stringe l’accostata con : «Altri cinque gradi di barra a sinistra». Ritenendola sufficiente, fa rimettere la barra al centro dirigendosi verso il secondo sbarramento, che costituisce l’entrata e l’uscita del porto di Cagliari.

Ora siamo in mare aperto e, con altri due precisi ordini al timoniere, viene impostata la rotta per uno-nove-zero.

La manovra è terminata con l’ordine : «Macchine cessa attenzione alla manovra».

Per il personale di coperta, la manovra cessa alcuni minuti dopo, quando l’interfono annuncia : «Cessa posto di manovra.Terzo grado di approntamento, prima squadra a posto».

Sono le 23,30 e monto direttamente di vedetta a sinistra. Fatto insolito per la navigazione in terzo grado, stavolta siamo due vedette a sinistra e due a dritta, a conferma dell’eccezionalità della missione che stiamo eseguendo.Gli orari dei turni di vedetta sono prefissati e durano quattro ore ciascuno.Questo mio turno dura solo mezzora, fino alla mezzanotte. Ho modo di apprendere in questo tempo altri dettagli della nave affondata. Era una motonave veneziana, si chiamava “Fusina” ed era diretta a Venezia con un carico di minerale di piombo (o di zinco). A bordo vi erano 19 uomini di equipaggio, e l’allarme è stato dato da uno dei naufraghi che si è salvato raggiungendo a nuoto la costa; non si sa nulla degli altri marinai dati per dispersi. Si spera di trovare ancora qualche superstite.

Ieri, domenica, due elicotteri dell’esercito, usciti in perlustrazione, hanno avvistato due salvagenti e numerosi altri rottami di legno, di teli, buatte, che galleggiavano in una zona di mare al largo dell’isola di Sant’Antioco e all’isola di S. Pietro. Fra le cause del naufragio si parla di un mare molto forte che ha spostato il carico della nave facendola irrimediabilmente inclinare.

Al cambio della guardia, a mezzanotte, mi portano un sorso di “Cordiale”, scendo le scalette esterne, verso poppa, destinazione “branda” per il breve riposo che mi spetta; il mare sembra una tavola, il vento si sente appena.

Lunedì 19 gennaio, alle 8,00 ritorno al mio posto di vedetta in alto a sinistra della plancia comando, assieme ad un altro mio collega “EM”.Il cielo è sereno il mare è pressochè piatto, il sole si è appena alzato dalle brume sopra l’orizzonte. Siamo sempre due vedette per ogni lato, dotate di ottimi binocoli ciascuna e, costantemente, gli Ufficiali in plancia, ci ripetono di tenere bene gli occhi ben aperti e di segnalare subito qualsiasi cosa che notiamo in mare : anche un semplice pezzo di legno.

Ci spiegano che è molto probabile che in quella zona, come segnalato dagli elicotteri, ci siano, spinti dalle correnti marine, dei corpi dei naufraghi, che possono riemergere d’improvviso anche dopo molte ore dal naufragio.

Stiamo perlustrando a velocità molto bassa, la zona di mare davanti alle coste meridionali dell’isola di S. Pietro. Più a nord rispetto a noi, incrocia l’altra fregata, l’«Andromeda» verso costa a qualche centinaio di metri c’è il rimorchiatore «Atleta» quindi ancora più in là la motovedetta «CP-306» della Capitaneria di Porto di Cagliari e sotto costa, quasi al limitare della scogliera alcune piccole barche a remi.

Noi a causa del pescaggio più profondo, non ci avviciniamo oltre il limite di circa mezzo miglio o poco meno dalla ripida scogliera che il sole illumina gradualmente fino ad un bel colore brunastro. Ha un’altezza regolare attorno ad una decina di metri, sembra quasi una muraglia, alla cui base a mo’ di bagnasciuga, vi sono grossi sassi e spuntoni di roccia, fra i quali due piccole barche a remi cercano con attenzione di insinuarsi. Incontriamo diversi oggetti galleggianti, quasi sicuramente appartenenti alla nave naufragata, che noi vedette puntualmente segnaliamo. Qualcuno di questi viene raccolto a bordo e sistemato a prua.

Verso le 11 accade l’episodio pietoso e in qualche modo atteso - perché quello era il nostro compito - e che, essendo per me la prima volta, non riuscirò mai più a dimenticare. In quel momento nel corso del nostro lento andirivieni, stavamo navigando verso nord, quando vedo nel cannocchiale, a sinistra per ore 10, una macchia rossastra, non molto grossa a poco più di un centinaio di metri.

Avviso subito l’Ufficiale in plancia e subito tutti i binocoli sono puntati su quel punto. L’ufficiale ordina di accostare per identificare l’oggetto galleggiante. In plancia arrivano altri ufficiali ed anche il «Secondo», il Tenente di Vascello Claudio Delise. Giunti a poche decine di metri, abbiamo la certezza che quella macchia è la schiena di un uomo, di un naufrago. E’ completamente svestito, galleggia a faccia in giù, e in trasparenza si vedono le braccia e le gambe leggermente piegate. La nave viene manovrata per mettersi sopravento e iniziare le operazioni di ricupero.Sembra, l’Altair, una grande mano che, con umana pietà, raccoglie lo sfortunato marinaio per deporlo tra le braccia dei suoi familiari. Tanto dolore può essere così, almeno in parte attenuato dal ritrovamento del corpo. Spero sia così anche per gli altri marinai, che non sono riusciti a salvarsi, e che in tanti qui stiamo cercando.

Il «Secondo» annuncia dalla “rete ordini collettivi” : «prepararsi per recupero naufrago sul lato sinistro».Poi imbocca di slancio la scaletta e si precipita giù a centrosinistra. Viene messa mare la rete naufraghi. Tutti a bordo seguono in rispettoso silenzio, le fasi del recupero : chi a prora, chi a poppa o sulle virole in tuga, sempre pronti comunque a intervenire in caso di bisogno.

Assieme al «Secondo» scende a pelo d’acqua il nocchiere Cartolina, un ragazzo siciliano, robusto e sempre cortese, esperto marinaio in quanto da civile lavorava in un peschereccio a Mazara del Vallo.

(A proposito del nocchiere Cartolina, qui nel mio diario, ho inserito una nota, scritta alcuni mesi più tardi, nell’estate del 1970, quando a bordo, ci arrivò la notizia che, proprio il nocchiere Cartolina, era morto nel naufragio del suo peschereccio, nel canale di Sicilia).

Avvicinano il corpo alla rete, e con l’aiuto di una cima e a forza di spalle lo issano a bordo. E’ un uomo sui trenta trentacinque anni, dalla corporatura robusta, dalla faccia larga e con i capelli corti e neri, la pelle è gonfiata per le quasi 60 ore trascorse in mare. Presenta diverse ecchimosi e piccole ferite un po’ su tutto il corpo, i segni dell’impari e fatale lotta con le onde; ha una grossa macchia nera sulla fronte vicino alla tempia sinistra.Viene ricomposto sulla barella avvolto in un lenzuolo e portato tra i due carabottini di poppa.

Un piantone viene messo a vegliarlo, in segno di rispetto; la poppa deve rimanere completamente libera.

La navigazione è ripresa sempre con le macchine al minimo; sottobordo continuano a passare con una certa frequenza, rottami di ogni tipo : pezzi di paratie, di porte con maniglie e un pezzo di tela che potrebbe essere parte di una bandiera. Dagli operatori di plancia, che sono in collegamento via radio con le altre unità, sento che sono stati recuperati già altri due corpi.

Per il momento quindi solo uno è vivo e salvo, per gli altri comincio a capire che più il tempo passa, meno sono le speranze di trovarne ancora qualcuno in vita. Tengo gli occhi fissi nel binocolo, guardando il mare davanti a noi. Ora è calmo e senza vento; provo a immaginare cosa possa essere successo quella sera di venerdì scorso, su questo stesso mare, per provocare una simile tragedia. Dev’essere stato terribile.

Nel pomeriggio si accosta sottobordo, a centro dritta, la «CP-306» per il trasbordo del naufrago: viene adagiato a prora, accanto ad altri corpi già ricuperati e ricoperti parzialmente – per la premura di portarli a terra - da teli. Al tramonto gettiamo l’ancora nel golfo di Palmas al largo della cittadina di Sant’Antioco. A indicarla c’è una lunga linea orizzontale di luci, tutte in fila.

Sono di guardia dalle 8 a mezzanotte, assieme al Sottocapo EM Beppe Conte, (un V-6 da Napoli, molto in gamba, ma poco sensibile alla disciplina militare). L’Ufficiale di Guardia in plancia è il Direttore del tiro, il Tenente di Vascello Ermirio, che è anche il nostro capo reparto.

Parliamo naturalmente dell’affondamento della nave.

Il Sig. Ermirio, è molto addolorato per quei marinai morti. Ci dice che, sono passati ormai troppi giorni dal naufragio e, anche a causa del ritardo con il quale è stato dato l’allarme, le speranze ormai di ritrovare qualche superstite, sono purtroppo pochissime. Dovevamo essere qui – continua con sincera partecipazione - nelle ventiquattr’ore successive al naufragio e, quasi sicuramente li potevamo salvare tutti quanti. Sui motivi che hanno provocato l’affondamento del mercantile, ci ricorda che in questi mesi di gennaio, febbraio e marzo, soffiano sui mari e sulle coste occidentali della Sardegna, dei venti maledetti, che mettono in grande difficoltà ogni tipo di imbarcazione.

Ci viene portato del tè caldo, molto gradito; osserviamo i fanali di via di una motobarca che scosta dall’Altair per andare a terra a fare scorta di viveri.

All’alba, tolti gli ormeggi, usciamo dal Golfo di Palmas, passando tra l’isola «la Vacca» e quella detta «il Toro» (due piccole isolette disabitate, battezzate così, chissà da chi e perché!) accostiamo a dritta andando a riprendere la nostra posizione di ricerca a sud ovest dell’isola di S. Pietro.

Verso le ore 11 vediamo l’«Atleta», che è tra noi e la costa, gettare a mare, sul lato sinistro, la rete naufraghi : capisco il motivo ed un velo di tristezza mi fa abbassare gli occhi. E’ un nuovo dolore, alleviato però dal pensiero che un altro corpo, un altro uomo avrà una degna sepoltura, un luogo per i suoi familiari per poter piangere e pregare, portare un fiore e ricordare chi il mare ha strappato alla vita.

Siamo in fila a centro-sinistra per la mensa equipaggio a pranzo, quando, grazie ai radiotelegrafisti, si diffonde la voce che il corpo appena recuperato era di un ragazzo di 15-16 anni, forse al suo primo imbarco. Povero ragazzo!

Due elicotteri della base di Decimomannu collaborano alle ricerche. Ora hanno lanciato in mare un razzo di segnalazione di tipo «Very» circa un miglio di prora. Ci portiamo sul posto pensando si tratti di un altro naufrago, ma è un falso allarme, si tratta solo di alcune tavole di legno.

Verso il tramonto stiamo rastrellando la zona di mare tra l’isola del «Toro» e l’isola «La Vacca», prima di riprendere la rotta per Cagliari. Passiamo e ripassiamo a bassa velocità tra queste due piccole isole senza scorgere alcun naufrago.Si vede che stava ritornando in superficie molto lentamente, perché è apparso all’improvviso, a meno di cento metri da noi, sulla dritta, in un punto in cui eravamo ripassati almeno cinque o sei volte prima.

Galleggia sul dorso, le braccia distese e la faccia al cielo. Sono sulla virola in tuga mentre viene recuperato. Tra i più attivi per il recupero: il nocchiere Cartolina, che naturalmente guida le operazioni, c’è Franzo, veneziano di Jesolo, il Sgt. Carro di La Spezia, e tanti altri che con coraggio davvero ammirevole si prodigano in ogni sforzo per issarlo velocemente in coperta e scongiurare il pericolo che torni sotto.

E’ una visione pietosa e desolante: la cruda immagine della morte!E’ un uomo magro, sulla sessantina, con pochi capelli grigi, gli occhi sprofondati dentro le orbite violacee. Le mani sono giallastre come i piedi scalzi. Al polso sinistro ha ancora legato il fischietto di salvataggio, all’anulare sinistro una fede nuziale. Appena viene toccato, la pelle si lacera, tanto è lessata dal mare, sembra che le ossa vi nuotino all’interno. Ha ancora indosso il giubbotto salvagente di colore arancio, gonfiato, i pantaloni di tela di un colore scuro, lasciano scoperta la pancia fortemente gonfiata, con numerose ecchimosi e dei fori nerastri qua e là, forse il becco dei gabbiani.

Viene avvolto in un lenzuolo, con qualche difficoltà perché – dopo tutti questi giorni che è in mare - è al limite della decomposizione; è adagiato in una barella e portato a poppa dietro la virola del 33. Un piantone viene messo di guardia, fino all’arrivo a Cagliari. Qui, salgono a bordo un medico ed un fotografo per i primi rilievi.Occorre un altro lenzuolo per contenere il corpo che ormai si sta sciogliendo, quindi viene messo in una cassa di zinco e, con Podda davanti ed io dietro, sulla passerella, lo portiamo a terra, dove ci attende un’autobara.

Il giorno dopo riprendiamo il mare per ritornare nella zona di ricerca. La zona delle ricerche è ora molto ampliata : siamo molto lontani anche dalle altre navi. Non succede niente di rilevante fino al termine della settimana, rientriamo a Cagliari nella serata di sabato 24 gennaio.

Domenica mattina, dopo l’assemblea a poppa, inizia il posto di lavaggio.

Dopo una settimana in mare occorre lavare, con l’acqua dolce, tutte le sovrastrutture dal salso marino.

Capo Cannone – responsabile di tutte le operazioni in coperta, è una pasta d’uomo. Parmense della Val di Taro - vicino alla pensione - stamane è particolarmente pignolo e, per convincere i più dubbiosi, recita la parte del finto burbero.

Gira continuamente da poppa a prora, fischietto sempre pronto, ricordando a tutti, con piglio severo, che: “oggi il posto di lavaggio è continuato ed aggravato!”. Stamattina la vedo dura per i soliti imboscati...

Chi con la manteca a lucidare gli ottoni, chi con la redazza e altri con le manichette dell’acqua dolce, rimettiamo a nuovo tutta la coperta, la tuga, fin dove è possibile spingerci. Si finisce che è già l’ora della mensa equipaggio!

Per fortuna alle ore 14,30 c’è il «Franchi in riga a poppa».

Qualche ora in franchigia con i colleghi EM, Basile, Fanni e Lombardi: il solito giro per le vie a saliscendi del centro è una salutare boccata d’aria.

Lunedì mattina si riparte di buon’ora. Si va alla ricerca dello scafo del “Fusina”. L’operazione “recupero naufraghi” almeno per noi, è terminata, anche se – purtroppo - si parla che manchino all’appello ancora tanti marinai di quell’equipaggio!

Chissà se riusciranno a ritrovarli.

Martedì 27 siamo sulla zona di mare a ovest dell’isola di S. Pietro.

Sono di vedetta – singola, non più in coppia – a sinistra. Il mare è increspato, il cielo è coperto : scrosci di pioggia ci accompagnano per tutta la mattinata.

Dalla plancia arriva l’inconfondibile segnale, continuo, dell’ecogoniometro che scandaglia il fondo marino. Il suo rumore è un «tuit» cadenzato come un metronomo, che si ripete ogni due-tre secondi. Verso mezzogiorno si sente, fra un «tuit» ed il successivo, un debole segnale di ritorno. E’ sicuramente un oggetto metallico che fa rimbalzare il segnale, forse è lo scafo del “Fusina”. Gli operatori radaristi e gli ufficiali, prendono nota di ogni segnalazione, facendo continuamente il punto nave.

Mercoledì mattina avviene la localizzazione definitiva del relitto: il segnale di ritorno dell’ecoscandaglio è forte e nitido e si sovrappone quasi perfettamente a quello di emissione. Siamo fermi sulla verticale dello scafo sommerso, sul punto presumibile dove è iniziata la tragedia con l’inabissamento del mercantile.

La costa dell’isola di S.Pietro non è molto distante.

Vengono rilevate, e scrupolosamente verificate, alla presenza di «Number-One», la latitudine, longitudine e profondità.

Sul posto rimane la nave da salvamento «Proteo», dotata di sommozzatori e telecamere subacquee per perfezionare le ricerche.

Il nostro lavoro è completato. A bordo, la tensione si va via via stemperando.

Nel viaggio di ritorno a Cagliari, mentre osservo con calma le bellezze della costa meridionale, ho modo di fare un breve bilancio di questo mese di gennaio che sta per finire. Sull’Altair, tra Vigi-Pesca, ed emergenze varie, sono al diciottesimo giorno di navigazione e non è ancora finito il mese!

Doppiato il profilo roccioso di Capo Teulada, sulla sinistra scorre ora un paesaggio incantevole che si specchia nel mare cristallino.

Ci accompagnano così – con il sole che va scomparendo nell’orizzonte a poppa - le bellezze naturali della Sardegna, fino all’ingresso del Golfo di Cagliari.

Qui, inaspettatamente, c’è mare lungo che, accostando a sinistra, lo prendiamo di traverso.

In plancia, si fanno miracoli di equilibrio!

Il rollìo è forte, siamo sballottati da una paratìa all’altra: brogliacci, fogli, matite sbattono a terra e cominciano a rotolare seguendo le oscillazioni della nave.

Una rollata più forte fa fermare l’ago dell’indicatore, in centrale, a poco meno di 30° ! Si balla! Non c’è un posto per stare tranquilli.

Si va a soli 6 nodi - pari avanti mezza - e questo allunga i tempi per arrivare in porto. Il «mare lungo» cessa solo davanti alla prima diga d’ingresso.

Il posto di manovra è – comprensibilmente stavolta - un po’ più lungo e laborioso del solito.

A poppa, folate di vento impediscono, a più riprese, al lanciasagole di far giungere in banchina il “sacchetto” per passare a terra il cavo di ormeggio; la poppa inizia a scarrocciare, occorre rimettere le macchine avanti e ripetere l’operazione.

Lo spazio di manovra fra le due unità già ormeggiate, è poco : un vento sostenuto ed imprevedibile ci costringe a manovrare con prudenza e attenzione.

L’Altair si ormeggia, infine, a tarda sera, alla banchina Ichnusa, concedendo a tutto il suo equipaggio, una meritata notte di riposo.

Armando Berti

 

 

Foto d'epoca

 

 

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