di Renzo Allegri
Sottomarina (Venezia),
gennaio 1970
«Avevo preparato il dolce domenica. Aspettavo che da un momento
all’altro mio figlio apparisse sulla porta di casa. Invece il mare
me lo ha portato via per sempre».
Norma Boscolo continua a ripetere questa frase con un fil di voce ad
intervalli regolari, come un lamento. E’ la madre del mozzo Angelo
Barbieri, di 16 anni, la più giovane vittima del tragico naufragio
del “Fusina”, avvenuta venerdì 16 gennaio, nel mare di Sardegna. La
povera donna è sconvolta dal dolore. Angelo era il suo primogenito.
Le sono intorno il marito, gli altri due figli più piccoli e alcuni
parenti. Cercano inutilmente di consolarla. Essa non sente le frasi
che le dicono. Non prende cibo da domenica sera, quando seppe della
disgrazia. Sta accasciata su una sedia, vicino alla finestra. Ogni
volta che vede passare per la strada un ragazzo che ha pressappoco
la statura di suo figlio, viene presa da convulsi, le tremano le
mani, grida e sviene. La portano a letto. Quando si riprende torna
alla finestra e continua a ripetere: «Aspettavo che da un momento
all’altro apparisse sulla porta, invece il mare e lo portato via per
sempre».
Angelo Barbieri era nato a Sottomarina, che dista 2 chilometri da
Chioggia. Sono otto i chioggiotte periti nel disastro del Fusina.
La famiglia Barbieri abita in una poverissima casa, un tugurio
vecchio e pericolante. |
«SIAMO
GENTE POVERA»
«E’ stata per
questa casa e per me che mio figlio è morto», mi racconta la mamma
di Angelo. «Noi siamo gente povera. Mio marito è marinaio, ma è
quasi sempre ammalato. E’ stato operato due volte per l’ulcera.
Lavora, si e no, sei mesi l’anno. Per mandare avanti la famiglia
vado a lavorare anch’io. Non ho salute. Sono piena di dolori. Vengo
spesso ricoverata all’ospedale. Sono stata in una casa di cura. Ma
bisognava mangiare e allora andavo a lavorare anche con la febbre».
«I lavori, qui a Sottomarina, non sono lavori delicati, da signori.
Andavo a lavare le carote e il radicchio, prima che venissero
imballati e spediti. Un mestiere duro per me: sempre con le mani e i
piedi nell’acqua. Poi andavo a fregare i pavimenti, a fare il
bucato».
«Angelo voleva aiutarmi. Da prima si mise a fare il barbiere e
prendeva duemila lire a settimana. Poi divenne commesso da un
panettiere e guadagnava cinque mila lire alla settimana. Sei mesi
fa, dopo che io fui un’ennesima volta ricoverata all’ospedale, mi
disse: “Mamma, non voglio più che tu faccia la serva. Dì a papà che
mi faccio il libretto di marittimo. Io mi imbarco, prenderò tanti
soldi e tu potrai stare a casa”».
«Non volevo che andasse in mare. So quanti sacrifici e rischi
comporta questa vita. Ma non c’erano alternative. A Sottomarina o a
Chioggia non ci sono possibilità di lavoro per i nostri figli: o
emigrano o vanno in mare». |
L’ULTIMO
NATALE
«La
prima volta partì il 26 agosto dello scorso anno. Quando tornò a
casa con il primo stipendio era così felice che mi fece piangere.
Sembrava che il mondo fosse tutto suo. Entrò in casa gridando: “Ciao vecia, son qua varda quanti schei!”. Buttò sul tavolo la busta paga.
Io mi misi a piangere, lui mi abbracciò in silenzio. Poi mi disse:
«Ho fatto i conti, tornando a casa. Con lo stipendio di papà
possiamo mangiare. Con quello che guadagno io possiamo pagare
l’affitto. Ce ne andrem0 da questa casa, prenderemo un appartamento
nuovo, asciutto, come quello della zia Milena. Tu starai a casa e
non ti verranno più i dolori”».
«I conti li aveva fatti bene. Infatti in marzo dovevamo cambiar
casa, ma ora non è possibile». La signora Boscolo interrompe il suo
racconto. I ricordi la commuovono ed è costretta a soffocare i
singhiozzi nel fazzoletto».
«A proposito della casa», interviene un parente «deve sapere che
la famiglia Barbieri è proprietaria della casa dove abita. E’ una
costruzione vecchia, ha più di cinquecento anni. Sta crollando:
cadono gli intonaci, piove dal tetto. Eppure non possono toccarla,
non possono metterla a posto. La casa è vincolata dalla
Sovrintendenza delle Belle Arti che non permette di far lavori».
«Mio figlio è cresciuto tra i sacrifici e le privazioni», riprende
a raccontare la madre del mozzo Angelo Barbieri. «Queste difficoltà
lo avevano aiutato ad essere maggiormente attaccato alla sua
famiglia. Era ancora un ragazzo, eppure non pensava ad altro che
alla famiglia come un uomo. Mi portava a casa tutto lo stipendio,
senza prendere per sé neppure mille lire».
«L’ultima volta che venne a casa, il giorno dopo Natale, mi mise in
mano uno stipendio di 117 mila lire. E’ una cifra favolosa per noi,
neppure suo padre porta a casa tanto. Poi mi chiese: “Mamma mi
daresti cinquemila lire?”. “Ma prendine dieci”, risposi. “Te li sei
meritati”, e gli misi in mano un pezzo da diecimila lire. Angelo non
volle tenerlo. “No mamma”, disse “mi bastano cinquemila lire.
Bisogna risparmiare per la casa”».
«Per le feste gli ho comperato un bel vestito nuovo. E’ stato
l’unico regalo che gli ho fatto in vita mia. Era anche senza
cappotto. Volevo comperargli anche quello, ma non sono riuscita a
convincerlo. Diceva che bisognava pensare alla casa».
«Ogni volta che tornava da un viaggio mi portava qualche regalino:
un pacchetto di caffé, una bottiglia, delle caramelle. A Natale mi
disse, tutto confuso: “Mamma, ti avevo comperato una scatola di
cioccolatini. Non ho resistito alla tentazione di aprire la scatola
e di assaggiarli. Erano così buon che li ho mangiati tutti”».
«Anche l’ultimo viaggio,prima di questa disgrazia, era stato
pericoloso. Quando Angelo entro in casa, il giorno di Santo Stefano,
mi disse sbattendo il berretto sul tavolo: “Vecia, son qua. Sono
vivo per miracolo. Il cargo era andato alla banda”. Il carico, cioè,
si era spostato su un fianco della nave che si era inclinata. La
stessa cosa è accaduta questa volta e sono andati tutti a fondo”».
«Dovevo morire anch’io con mio figlio», interviene a dire il padre
di Angelo, Menotti Barbieri. «Sono rimasto a casa perché avevo
preso una forte influenza, con febbre altissima, tanto che fui
ricoverato all’ospedale».
«Angelo non aveva mai voluto che partissimo insieme, sulla stessa
nave. Diceva: “Se succede una disgrazia, bisogna che uno di noi due
di possa salvare, per provvedere alla mamma”».
«Alla fine di dicembre avevo finito gli impegni con la mia società
ed ero libero. Il nostromo del “Fusina” mi ingaggio per questo
viaggio. Il 29 di dicembre fui preso dalla febbre e venni
ricoverato, così il 2 di gennaio non potei partire».
«Io cominciai a fare questo lavoro nel 1956, per necessità. E’ un
lavoro duro, pericoloso che ci tiene lontano dalla famiglia. Anche
mio figlio si era imbarcato per necessità. Ma nel suo entusiasmo
giovanile, amava il mare, amava il “Fusina”, come se la nave fosse
stata sua. Questo doveva essere l’ultimo viaggio che faceva con il
“Fusina”. Si diceva infatti che la nave fosse già stata venduta e
lui ne era dispiaciuto come se stesse per perdere un caro amico».
«Parlava con tale trasporto di questo suo lavoro, che anche l’altro
mio figlio, Mauro, di tredici anni, continuava a piangere e a
chiedermi che gli facessi il libretto di marittimo perché voleva
imbarcarsi. Avevo deciso di accontentarlo. Qui non c’è possibilità
di trovare altro lavoro. Mauro è volenteroso come suo fratello.
Anche se è così piccolo, va a lavorare tutti i giorni negli orti, a
lavare le carote, il radicchio, ad appiccicare le targhette sulle
casse. Lavora fino alle tre e alle quattro del mattino per pochi
biglietti da mille alla settimana. Mi fa pena vederlo ridotto così.
Avevo proprio deciso di accontentarlo e di fargli il libretto di
marittimo. Ma ora basta, preferisco patire la fame, ma i miei figli
no metteranno più piedi sulle navi. Gli uomini vanno tranquillamente
sulla Luna e tornano a casa sani e salvi. Noi marittimi invece
moriamo in mare senza che nessuno se ne accorga».
«Mio figlio era molto affezionato alla sua sorellina, Donatella di
10 anni», mi racconta ancora la madre di Angelo. «Prima di
imbarcarsi le aveva detto: “Cosa vuoi che ti porti quando torno?”.
“Una bambola”, rispose mia figlia. Angelo rimase un po’ perplesso:
una bambola costa parecchio e lui voleva risparmiare su tutto. Però
desiderava tanto far felice la piccola. Le disse: “Vai dalla mamma e
chiedile se posso regalarti una bambola”. Io risposi di sì. Sono
certa che in fondo al mare con il mio Angelo è andata anche la
bambola di Donatella».
A Sottomarina la gente ricorda con commozione questo ragazzo
tragicamente scomparso. Una vecchia signora che abita vicino alla
casa dei Barbieri mi ha detto: «Era un ragazzo che si faceva voler
bene. Quando tornava, passava di casa in casa a saltare tutti. Gli
uomini con i quali aveva maggior confidenza li chiamava “zio”».
Assieme al nome di Angelo Barbieri, il più giovane dell’equipaggio
tragicamente scomparso, la gente ricorda Giovanni Nordio, il
telegrafista di bordo. Anche il Nordio era giovane, aveva 28 anni.
Questo era il suo ultimo viaggio e doveva sposarsi fra qualche mese.
Un vecchio marinaio, amico di Giovanni Nordio, mi ha raccontato:
«Giorgio (lo chiamavano tutti così), doveva morire nel ’44, quando
aveva appena due anni. Sua madre era a bordo della motonave
“Giudecca” ancorata in Laguna, e teneva il piccolo figlio in
braccio. Ci fu un bombardamento. La donna venne ferita. La nave
affondò. La madre di Giorgio si buttò in acqua con il bambino in
braccio, riuscì a raggiungere la riva, affidò il piccolo ai
soccorritori e spirò. Giorgio raccontava spesso questo episodio e
diceva che a lui il mare non avrebbe fatto più nessuno scherzo. Era
già stato assunto dalla “Snam progetti”, che lo aveva destinato alla
cabina radio di una piattaforma fissa per le ricerche petrolifere in
mare aperto. Aveva accettato di fare questo viaggio per mettere da
parte un po’ di soldi per il matrimonio».
Renzo Allegri |