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La tragedia del Fusina |
Settima parte |
Rassegna
stampa nazionale |
Articolo 11 |
IL GAZZETTINO
Edizione della Provincia di Venezia
mercoledì 21 gennaio 1970
- pagina 7 - |
Forse
saranno sepolti accanto ai morti della «Luisa»
gli sventurati del cargo veneziano
NEL SACRARIO DEL MARIPORT I CADUTI DEL «FUSINA»?
Il parere di sindacalisti e assicuratori sulla tragedia del
mercantile |
Da Cagliari, ormai, arrivano soltanto le notizie temute, eppur
insieme attese : il mare restituisce le salme delle vittime del
«Fusina».
Il «miracolo» non avviene. Nelle case, dove ormai la speranza è
perduta, ma non vuole ancora morire, tra gli amici, tra i
conoscenti, ora si attende solo la fine dell’incubo; si attende di
sapere che, almeno, ci sarà una bara su cui piangere, su cui sfogare
nel pianto l’angoscia di queste ore così lunghe.
Da Venezia è partito il capitano De Simone, della società Sana:
provvederà al riconoscimento delle salme, e deciderà per il loro
trasporto.
Affiancherà nel triste compito l’agente cagliaritano della società,
Masia. Nell’ufficio della Sana, a Mestre, attorno al capitano
Borsani, che è in piedi dalla notte del tragico annuncio, si
affollano i familiari dei dispersi.
Per i funerali, nulla è stato deciso: non si sa né quando né dove
saranno fatti. Per ora, si attende che tutte le salme siano
recuperate.
Intanto, una iniziativa è stata presa dall’Opera Mariport : è stato
proposto di raccogliere le salme dei morti veneziani (e forse anche
degli altri) nel Sacrario nazionale dei caduti del mare che sorge
sul Molo “A” di Porto Marghera.
Le salme dei caduti del «Fusina» sarebbero tumulate nella cappella,
dove già sono sepolti i morti nell’esplosione della «Luisa».
Naturalmente, occorre attendere che le famiglie diano il loro
consenso.
In città, a Mestre, a Chioggia, nei paesi della terraferma
l’emozione è ancora assai viva.
Abbiamo raccolto ieri i pareri di due sindacalisti, Giovanni
Tregnaghi, della Uil, un uomo di mare che ha navigato per 43 anni, e
Flavio Grubissa, della Cisl.
Entrambi ci hanno voluto sottolineare il fatto che i marittimi del
«Fusina» non fossero imbarcati con il contratto collettivo
nazionale, bensì a «compartecipazione»: una forma legale, ma che i
sindacati sperano sia resa illegale dal prossimo contratto di
lavoro.
In pratica, ci è stato spiegato, chi accetta tale tipo di contratto,
lo stipula direttamente con l’armatore (e già con questo viene a
perdere le garanzie di una contrattazione «appoggiata» e controllata
dai sindacati); riceve un minimo di stipendio (una paga «molto
bassa») arricchito a fine viaggio da una «busta» per ogni componente
dell’equipaggio, che pareggia sì – in genere – la somma che spetta a
quanti viaggiano con contratto regolare, ma con una gran parte della
stessa somma, che non è calcolata per la pensione, l’assistenza,
ecc.
Quanto alla tragedia del «Fusina», Trignaghi – che è uno degli
«esperti» sindacali per la visita tecnica e sanitaria – ha parlato
di una nave «abbastanza buona» con «un equipaggio regolare e
qualificato» e ha escluso che nelle assunzioni e nella composizione
dell’equipaggio ci siano state irregolarità di qualunque tipo.
Un altro aspetto della tragedia sul quale abbiamo compiuto una
piccola «inchiesta» è quello assicurativo.
Il «Fusina» era assicurato presso la Siat, una associata della Sai.
Alla Siat di Venezia ci hanno che la polizza era stata stipulata
presso la sede della Siat di Genova, soltanto per i «corpi» (cioè
per la nave), mentre per la merce che la nave portava era stata
contratta un’assicurazione con la «Levante» pure di Genova. Alla
Siat di Genova il dirigente responsabile non ha voluto né
confermarci né smentirci la notizia, affermando di non poter
compiere le necessarie «indagini molto lunghe» per accertare se la
cosa era vera, dato che è in corso una indagine ufficiale sul
naufragio.
Alla «Levante», invece, sono state compiute subito le ricerche:
pochi minuti dopo, ci è stato assicurato che non risultava che il
carico di blenda trasportato dal «Fusina» fosse stato assicurato
presso quella società.
Per quanto riguarda invece l’assicurazione sulla vita dei marittimi,
essa è uguale per tutti, anche con il contratto a
«compartecipazione».
Le società assicuratrici – ci è stato poi spiegato – non compiono
una loro inchiesta, vengono comunque invitate a partecipare con
propri esperti a quella ufficiale delle autorità.
In genere, in caso di disastro navale, le Assicurazioni pagano,
anche qualora vi siano state negligenze o fatti colposi da parte
dell’equipaggio o dell’armatore; unica condizione per non risarcire
il danno è che sia dimostrato (ma nel caso specifico è escluso) un
eventuale dolo da parte dell’armatore (o da parte di qualcuno per
interesse dell’armatore).
Numerosi telegrammi di partecipazione alla tragedia che ha colpito
tante famiglie e tutta la marineria veneziana, in seguito
all’affondamento del mercantile «Fusina», sono pervenuti nella
giornata di ieri al capitano Mario Borsani, dirigente della Società
Sana, alla quale apparteneva la nave affondata.
L’ing. Giovanni Favaretto Fisca, nella veste sia di sindaco di
Venezia che di Presidente della Comunità dei porti adriatici, ha
scritto:«Interpretando sentimenti costernata partecipazione delle
popolazioni adriatiche, pregola far pervenire al superstite e alle
famiglie duramente colpite dell’equipaggio del «Fusina»,
tragicamente disperso, i sentimenti miei personali e a nome della
Comunità dei porti adriatici di profondo commosso cordoglio».
Anche Gianni Bartoli, ex sindaco di Trieste, e Presidente del Lloyd
triestino , ha inviato un messaggio.
L’Associazione armatori dell’adriatico occidentale ha inviato alla
Sana questo telegramma:«Profondamente colpiti grave notizia
naufragio motonave «Fusina» esprimiamo codesta Società et famiglie
marittimi scomparsi sentimenti viva solidarietà et commosso
cordoglio. Armamento veneziano».
Altri telegrammi di partecipazione e di cordoglio sono stati inviati
dalla Montecatini Edison (per la quale la «Fusina» stava compiendo
il viaggio) la Esso di Porto Marghera e la Società Oceanic.
Sulla tragedia del «Fusina» i deputati veneziani Degan, Boldrin e
Miotti Carli hanno rivolto al ministro della Marina mercantile una
interrogazione:«Sulle circostanze ed eventuali responsabilità che
hanno determinato il tragico naufragio.
In particolare si desidera conoscere il motivo per cui l’SOS non sia
stato raccolto da alcun posto di ascolto, non consentendo pertanto
alcuna opera di soccorso.
Si chiede, inoltre, quali provvedimenti si intendono assumere per
sanare le dimostrate deficienze nel sistema dei servizi di
assistenza e sicurezza nella navigazione e quali provvidenze
disporre in favore delle famiglie colpite».
(fine dell’articolo, non firmato) |
Aiuterà a
riconoscere le salme
Il Sindaco di Chioggia partito per Carloforte |
«La sua è una famiglia di pescatori: erano perfino padroni di
barche.
Lui però ha sempre navigato soto paron: lo faceva per sua figlia,
essenzialmente, e per aver diritto in futuro ad una pensione
maggiore aveva accettato questo imbarco, questo imbarco grando.
«Lui» è Felice Spanio, uno dei sei chioggiotti (il settimo si era
trasferito da poco a Mestre, che la sciagura del «Fusina» ha
coinvolto).
Forse sei persone su una popolazione di quasi cinquantamila abitanti
non costituiscono una percentuale degna di nota.
Ma lo diventano certamente se i sei sono uomini di mare, e se la
popolazione è quella di Chioggia, una città i cui legami con il mare
sono profondi quanto in pochi altri luoghi può accadere.
Tutta Chioggia è sotto «choc», ognuno ha trovato – tristemente – un
argomento di conversazione, di discussione, di dolore anche.
Tanto più, poi, perché i chioggiotti costituiscono una comunità
fortemente imparentata: le famiglie sono numerose, e in questi
momenti improvvisamente si riscoprono patriarcali.
Anche per questi motivi il sindaco di Chioggia avv. Michele Bighin
che da qualche giorno si trova a Roma, ha deciso, anziché tornare
subito a casa di raggiungere Carloforte – da dove sono coordinati i
soccorsi e dove a poco a poco vengono riunite le salme che il mare
restituisce – per assistere alle operazioni di recupero e di
identificazione dei corpi dei suoi concittadini.
A Chioggia il mare è più che di casa, anche se dal dopoguerra in poi
l’attività mercantile è andata declinando, ma non quella
peschereccia: il mare viene quasi personificato: è un conoscente
noto.
Fino a due giorni fa dicevano anche che era un «amico caro», ma ora
queste parole più nessuno è disposto a ripeterle.
«Choc» ed angoscia: quasi un tradimento, un affronto, questo mare
cattivo.
Le famiglie colpite, quale per un verso quale per un altro, hanno
ognuna una situazione che rende ancor più grave la tragedia.
La moglie del secondo ufficiale, Giordano Voltolina, ha perduto da
pochi mesi la madre e sempre di recente è scomparso anche il
fratello del secondo ufficiale; viveva da sola in attesa delle pause
di imbarco del marito che ora non tornerà più.
In attesa anche di quella pensione per ottenere la quale Giordano
Voltolina era ritornato sulle navi, a lavorare.
Domenico Bonaldo aveva 37 anni (ormai purtroppo, l’imperfetto è
abbastanza giustificato); si era sposato molto giovane, ed erano
nati Osvaldo di 16 anni, Luciano di 12, Denni di 8 ed infine
Orietta: «Voleva a tutti i costi una figlia: è nata soltanto da un
anno e lui non ha davvero potuto godersela molto, tra un viaggio e
l’altro».
In casa Bonaldo, subito dopo le prime notizie frammentarie, si sono
riuniti in molti; quando è arrivato il Parroco, la sorella di
Domenico colta da violento «choc» al pari della moglie, ha
cominciato a smaniare; mons. Luigi Frizziero ha dovuto quasi
urlare:«Non è morto! Non si sa ancora: magari c’è speranza.
Bisogna stringere i denti».
Il tutto contrappuntato da un intreccio di lamenti, di urla, di
imprecazioni anche. Il mare traditore, ecco: l’amico di cui ti fidi
e che ti colpisce in modo crudele.
Chioggia ora è così: il mare le ha strappato sei figli tra i più
onorati, sei di quelli che erano riusciti a lavorare sulle «navi
grandi» e che perciò guadagnavano relativamente più degli altri.
Sei uomini per i quali il domani non sarebbe stato un posto di
manovale in una fabbrica lontana, che non avrebbero mai dovuto
salutare la loro vocazione più autentica. «E pensare – dice
tristemente la signora Spanio – che in famiglia si era contenti di
questo imbarco su una nave più grande.
Tutti temevamo semmai i mercantili piccoli, ci sembrava che questa
barca sarebbe stata ancor più sicura».
E adesso al pianto si unisce la rabbia di questa contentezza d’una
volta, le lacrime si fanno ancor più amare, il dolore ancor più
cocente.
Se mai è possibile.
F.
I.
Fine dell’articolo, corredato da una foto con la seguente
didascalia:
La moglie di Domenico Bonaldo,
Agnese Varisco, con il secondogenito Luciano di 12 anni,
Denni di 8 e la piccola Orietta |
«NON
VENIRE, NON C’E’ BISOGNO»
Freguia ha telefonato ad un fratello a Roma |
Ugo Freguia, il cameriere della «Fusina» unico sopravvissuto nel
disastro, per i familiari abitanti al Lido è tuttora
irraggiungibile.
Di quanti si sono interessati alla sua sorte i genitori sono gli
unici, che ne hanno notizie indirette, soprattutto, dice il padre
Pasquale, «per radio e televisione».
La storia è curiosa.
Pasquale Freguia è stato molto cauto - la moglie, sofferente di
cuore, non potrebbe affrontare più di tante emozioni - nell’agire e
soprattutto nel parlare.
Tre volte, in due giorni, ha telefonato in Sardegna, e per tre volte
le notizie del figlio gliele hanno date gli altri.
Mai Ugo si è presentato all’apparecchio, per dargli dirette notizie
di sé: e Pasquale Freguia sulle prime non ha sottilizzato.
«Mi dicono che è stanco, ancora non si rimette dallo choc, è
inutile insistere».
Poi però ne ha sentito la voce alla radio, lo ha visto alla
televisione tra un mucchio di gente: dunque lo stress è passato.
E allora?
E il fratello che vive a Roma, e che fino a ieri sembrava deciso a
partir lui per la Sardegna, per ristabilire finalmente un diretto
contatto?
«No, non si è mosso da Roma.
Ormai, l’abbiamo visto più volte, le notizie son buone, non ci
sarebbe scopo a muoversi buttando denaro in viaggi superflui…
I due fratelli del resto si sono parlati per telefono, e da Roma
l’altro figlio ci ha tranquillizzati anch’egli.
Dice che Ugo insiste perché nessuno vada da lui, e nessuno qui a
Venezia si faccia vivo.
Va bene così!».
Pasquale Freguia, ora si augura semplicemente che il figlio ritorni
a casa al più presto.
«Se dice che non vuol parlare, è chiaro che calcola di tornare da
noi da un momento all’altro, ed io non vedo l’ora che arrivi per
sottoporlo difilato ad una accurata visita di controllo.
Lo so, sta bene, l’ho visto che è in piedi: ma santo Dio, è stato
per ore nell’acqua gelata, chi può dire che non si trascini addosso
qualche brutta conseguenza?
Qui rifaremo tutto da capo, vogliamo esser tranquilli».
Un vecchio «lupo di mare», Giovanni Tregnaghi, intervistato anche
per conoscere l parere dei sindacati (ne riferiamo in altro
articolo), ha avuto parole di ammirazione per Ugo Freguia.
«Dovrebbero dare la medaglia d’oro a quel ragazzo» ci ha detto.
«Conosco molto bene il mare nel quale ha nuotato per tante ore: vi
assicuro che mi sembra impossibile che ce l’abbia fatta.
Deve avere proprio un bel fegataccio.
Quello è un eroe del mare».
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