Chioggia, 19 gennaio
«La storia non
finisce qui.
Qualcuno mi dovrà ben dare delle spiegazioni.
C’è da pregare Iddio che si tratti di spiegazioni convincenti.
Voglio tutta la verità, qualunque essa sia, sulla vicenda che è
costata la vita al mio ragazzo».
Il colloquio si
svolge in una piccola cucina buia, al pianterreno di una casetta
umida, con i muri color ciclamino, in uno di quegli angoli oscuri di
Sottomarina che sono rimasti fuori dal «giro» della speculazione
immobiliare e turistica.
Avvolta in alcune
grosse coperte, stesa su un seggiolone di plastica, il volto
disfatto dalle lacrime, c’è la signora Irma, madre di Angelo
Barbieri, mozzo del «Fusina» al suo primo imbarco, «mascotte» del
mercantile affondato nel mare di Sardegna, a poco più di un’ora di
navigazione dal porto che la nave aveva lasciato, per il viaggio di
ritorno a Venezia, venerdì sera, verso le 21,30.
Una amica le sta
accanto.
A bollire su una stufa a gas dallo smalto corroso, c’è un bollitore
di alluminio.
Dentro c’è una siringa.
Irma Barbieri, ogni due ore, ha bisogno di un cardiotonico.
Il cuore, senza quelle iniezioni, non reggerebbe.
Sulla donna affranta, piovono, ad intervalli regolari, gli sguardi
teneri ed angosciati, di Menotti Barbieri, il padre del mozzo.
Una sorte tristissima, la sua.
Il gioco sottile e crudele che il destino ha tramato alle sue
spalle, giustifica ampiamente la asprezza del suo discorso,
interrotto a tratti da un pianto virile, silenzioso, che lo induce a
voltare il capo verso la zona d’ombra più fitta della cucina.
Il due gennaio da
Marghera, a bordo del «Fusina», avrebbe dovuto partire anche Menotti
Barbieri per quello che è risultato l’ultimo viaggio del «cargo».
E’ stato trattenuto a terra da una influenza improvvisa e violenta:
il 29 dicembre lo avevano ricoverato al «Policlinico» di Mestre.
Ne è uscito a tarda sera, il 4 gennaio.
Il «Fusina» aveva già lasciato gli ormeggi di Porto Marghera da 48
ore. «Almeno saremmo partiti assieme: l’idea che il ragazzo sia
morto solo, indifeso, non mi dà pace».
Qualcuno dovrà dare una spiegazione a Menotti Barbieri: «Se sono
stati commessi degli errori – dice il padre del ragazzo – il
responsabile dovrà pagare per la vita del ragazzo».
Il sospetto che
oltre alla natura infida – il mare gonfio, il vento al traverso, il
«cono d’ombra» che ha reso impossibile la ricezione della chiamata
di soccorso – l’imperizia di qualcuno abbia concorso
all’affondamento, nessuno riuscirà a toglierlo facilmente dalla
mente di Menotti Barbieri e di sua moglie.
C’è, a riproporre
al cuore ed alla mente dei due genitori vinti dal dolore, il ricordo
fin troppo lucido del racconto che il loro Angelo, aveva fatto, al
rientro a Venezia dal primo viaggio in mare della sua vita.
Alla madre ed al
padre Angelo aveva detto: «Ce la siamo vista brutta.
Vi giuro che è stata una bruttissima esperienza, la peggiore della
mia vita.
Eravamo usciti dal porto da poco tempo – un’ora, un’ora e mezza,
forse – quando il «Fusina» ha cominciato ad inclinarsi da un lato.
Colpa del carico, forse.
Colpa del vento e del mare che con il carico, probabilmente mal
sistemato, spingevano la barca tutta da una parte.
Gli uomini hanno faticato parecchio a tenerla a galla.
Io sudavo freddo.
Ho creduto proprio che saremmo finiti a picco».
Il padre di Angelo,
allora, forte della sua esperienza di tredici anni di navigazione,
aveva tentato di ridurre, nella mente, del mozzo, la portata del
rischio che il «Fusina» avrebbe corso in quell’occasione.
Ora nella mente di
Menotti Barbieri e di sua moglie, quel racconto si dilata, assume le
tinte fosche di una tragica premonizione.
«E’ evidente – dice
il padre del mozzo – che anche stavolta il carico non era sistemato
bene.
E’ evidente che s’è ripetuto lo stesso guaio di quell’altro viaggio.
Solo che stavolta non ce l’hanno fatta a tener su la barca e quella,
con la maledetta blenda, è andata a picco come un sasso».
Un’eco del rischio
che il «Fusina» aveva corso all’inizio del penultimo viaggio di
ritorno dallo scalo sardo a Porto Marghera, la si avverte anche nel
minuscolo appartamento arroccato in cima ad una ripida scala di
legno consunto, in un casermone grigio di via S. Giacomo, una
trasversale di Corso del Popolo.
E’ la casa di
Duilio Padoan, di 50 anni, il nostromo del «Fusina», uno dei
diciotto.
«Duilio - ci dice la moglie – era un uomo di poche parole.
A casa non parlava quasi mai del lavoro: aveva i nipotini che lo
occupavano per tutto il tempo.
L’ho sentito poche volte lamentarsi.
L’ultima volta però aveva accennato alla grossa fatica fatta, al
gran brutto mare che c’era stato, al carico che li aveva fatti
imbestialire.
Forse ne aveva parlato poco per non impressionarci.
Conoscendolo, mi aveva colpito il fatto che ne avesse accennato».
Il carico instabile, dunque, ha determinato il naufragio?
L’accertamento non sarà forse possibile mai.
E’ comunque la sola spiegazione razionale che gli uomini di mare
(che compiono in queste ore un mesto pellegrinaggio nelle case dei
loro sfortunati compagni di avventura: «un pugno di soldi che costa
grandi spaventi, quando non procura dolori inguaribili come questo»)
riescono a dare.
Le stesse
dichiarazioni del comandante Mario Borsani, dirigente della «Società
Abruzzese di Navigazione», proprietaria del «Fusina» giustificano
l’ipotesi che un improvviso sbandamento del carico, abbia
determinato la catastrofe.
In agosto il
«Fusina» era stato messo all’asciutto, in bacino di carenaggio, a
Venezia.
Le strutture della nave erano state sottoposte a controllo: nulla
quindi autorizzava l’ipotesi che il “cargo” non potesse reggere al
mare, anche di massima forza.
Anche l’apparato motore e la timoneria erano stati controllati.
Tutto era risultato regolare.
Lo ha detto Mario Borsani.
Il «Fusina» - del
valore fra i 300 e i 400 milioni – era stato costruito nel 1957
presso i cantieri «Pellegrini» di Napoli, per conto della società di
navigazione «Sant’Ambrogio» di Genova.
Al varo il
mercantile era stato battezzato «Nozarego» e con questo nome aveva
compiuto molte diecine di traversate fra i porti italiani, siriani,
algerini e francesi, trasportando merci varie e carichi secchi.
La «Società
Abruzzese di Navigazione» aveva acquistato il «Nozarego» nell’aprile
del 1968.
Il mercantile aveva cambiato nome.
I primi viaggi del
«Fusina» si erano svolti fra Porto Marghera e gli scali della costa
jugoslava.
La barca trasportava bauxite per conto della «Sava» e della «Montedison».
Più tardi erano cominciati i viaggi per la Sardegna.
Era cominciato il
trasporto di blenda: il minerale ad alta concentrazione di piombo
che pesa moltissimo ed occupa poco spazio.
La capacità di carico del «Fusina», come risulta dal racconto di Ugo
Freguja – il solo sopravvissuto, almeno fino ad ora – e da altre
testimonianze, veniva sfruttata al massimo: nelle stive del «cargo»,
prive di paratie, restava ancora spazio.
In coincidenza con uno sbandamento del carico (una massa vischiosa
come il fango) le stive possono aver imbarcato una grossa ondata.
La spinta dell’acqua può aver accentuato l’oscillazione del
bastimento fin oltre il limite critico.
La tragedia del «Fusina» gli uomini del mare di Chioggia riescono a
spiegarla soltanto così.
Ma è davvero così
che sono andate le cose?
Ci sono
responsabilità da indicare, come vorrebbe Menotti Barbieri, il padre
del sedicenne che è andato a rischiare la vita in mare per dare una
mano in casa, con le 97 mila lire mensili che gli davano per un
lavoro duro, da uomini?
E’ innegabile: di
fronte a un “mistero” così tragico, gli uomini e le donne colpiti
nei loro affetti più cari, vedono ombre dappertutto e le ombre
accrescono il loro dolore.
Fra queste ombre
una prende corpo nell’eco di certi discorsi, tutti fatti dagli
uomini del «Fusina» nei giorni di vacanza a Chioggia, prima
dell’ultima, fatale partenza da Porto Marghera.
«Che rabbia, mamma – ha detto il mozzo del «Fusina» - sono al mio
primo imbarco e non so se resterò sulla barca. L’hanno venduta».
Anche il nostromo
Duilio Padoan aveva parlato con il figlio Silvano della vendita del
mercantile.
Anche in casa di
Giovanni Nordio, detto Giorgio, il ventottenne telegrafista del
«Fusina» s’era sentito parlare del passaggio di proprietà del
mercantile.
Quello iniziato il
2 gennaio a Marghera avrebbe dovuto essere l’ultimo viaggio del
«Fusina» sotto le insegne della «Società Abruzzese di Navigazione»?
La circostanza è stata categoricamente smentita dal comandante Mario
Borsani.
«Era la nostra migliore unità – ha detto – e non è vero che era
stata ceduta ad altri».
C’è un dato tragico
e singolare nella storia dell’imbarco sul «Fusina» di Giovanni
«Giorgio» Nordio, il radiotelegrafista diplomato alla Fondazione “Cini”.
Fidanzato da tre anni con Lucia Cesarin, una ragazza chioggiotta, il
Nordio era salito sul mercantile affondato nel mare di Sardegna, su
sollecitazione del fratello Agostino, un anno più vecchio di lui.
Agostino aveva trovato un posto su una nave più grossa.
Sul «Fusina» era rimasto libero il suo ruolo: perché non occuparlo
piuttosto che restare a terra?
Giovanni Giorgio aveva accettato.
Dopo questo ultimo
viaggio – quello che si presume gli sia costato la vita - «Giorgio»
Nordio sarebbe sceso a terra: a febbraio si sarebbe imbarcato su una
piattaforma fissa in mare della società «Snam – progetti».
Partendo s’era infilato in una tasca della giacca la lettera di
assunzione arrivata pochi giorni prima.
Agostino Nordio sta
navigando nell’Oceano Indiano.
Non si sa se abbia già appreso dell’affondamento del «Fusina», del
drammatico appuntamento da lui inconsciamente fissato per il
fratello, con la sorte più amara che il destino possa riservare alla
gente di mare.
Gianpiero Rizzon |