A cura di Salvatore Borghero Rodin

     

 

 
 

A cura di Salvatore Borghero Rodin - Racconto a puntate sui principali eventi che hanno dato vita alla grande storia di Carloforte e dell'Isola di San Pietro

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16.01.2010 - Fusina - Nel 40° anniversario della tragedia che toccò il cuore dei Carlofortini
   

La tragedia del Fusina

Sesta parte

Rassegna stampa regionale veneta

Articolo 07

IL GAZZETTINO DI VENEZIA
martedì 20 gennaio 1970
- Pagina 3 -

In 1a. pagina ci sono 3 articoli, sul Fusina – più il comunicato Ansa - e in alto a destra su una larghezza di 4 colonne, la cartina della zona del naufragio. A pag. 3 un altro articolo

Sempre martedì 20 un altro articolo a tutta pagina tre, su sette colonne.
Al centro, una grande foto, su 5 colonne, con la seguente didascalia:
Chioggia – Irma e Menotti Barbieri, genitori del mozzo del «Fusina»,
affranti dopo aver ricevuto la notizia del naufragio.

PARLANO I PARENTI DEI NAUFRAGHI NEL MARE DELLA SARDEGNA
«Fusina», la nave del rischio?
Nell’ultimo viaggio di ritorno a Marghera, il mercantile s’era fortemente inclinato per uno spostamento del carico nella stiva.
Una tragica serie di coincidenze ha forse segnato il destino di alcuni componenti dell’equipaggio.

Chioggia, 19 gennaio

«La storia non finisce qui.
Qualcuno mi dovrà ben dare delle spiegazioni.
C’è da pregare Iddio che si tratti di spiegazioni convincenti.
Voglio tutta la verità, qualunque essa sia, sulla vicenda che è costata la vita al mio ragazzo».

Il colloquio si svolge in una piccola cucina buia, al pianterreno di una casetta umida, con i muri color ciclamino, in uno di quegli angoli oscuri di Sottomarina che sono rimasti fuori dal «giro» della speculazione immobiliare e turistica.

Avvolta in alcune grosse coperte, stesa su un seggiolone di plastica, il volto disfatto dalle lacrime, c’è la signora Irma, madre di Angelo Barbieri, mozzo del «Fusina» al suo primo imbarco, «mascotte» del mercantile affondato nel mare di Sardegna, a poco più di un’ora di navigazione dal porto che la nave aveva lasciato, per il viaggio di ritorno a Venezia, venerdì sera, verso le 21,30.

Una amica le sta accanto.
A bollire su una stufa a gas dallo smalto corroso, c’è un bollitore di alluminio.
Dentro c’è una siringa.
Irma Barbieri, ogni due ore, ha bisogno di un cardiotonico.

Il cuore, senza quelle iniezioni, non reggerebbe.
Sulla donna affranta, piovono, ad intervalli regolari, gli sguardi teneri ed angosciati, di Menotti Barbieri, il padre del mozzo.
Una sorte tristissima, la sua.
Il gioco sottile e crudele che il destino ha tramato alle sue spalle, giustifica ampiamente la asprezza del suo discorso, interrotto a tratti da un pianto virile, silenzioso, che lo induce a voltare il capo verso la zona d’ombra più fitta della cucina.

Il due gennaio da Marghera, a bordo del «Fusina», avrebbe dovuto partire anche Menotti Barbieri per quello che è risultato l’ultimo viaggio del «cargo».
E’ stato trattenuto a terra da una influenza improvvisa e violenta: il 29 dicembre lo avevano ricoverato al «Policlinico» di Mestre.
Ne è uscito a tarda sera, il 4 gennaio.
Il «Fusina» aveva già lasciato gli ormeggi di Porto Marghera da 48 ore. «Almeno saremmo partiti assieme: l’idea che il ragazzo sia morto solo, indifeso, non mi dà pace».
Qualcuno dovrà dare una spiegazione a Menotti Barbieri: «Se sono stati commessi degli errori – dice il padre del ragazzo – il responsabile dovrà pagare per la vita del ragazzo».

Il sospetto che oltre alla natura infida – il mare gonfio, il vento al traverso, il «cono d’ombra» che ha reso impossibile la ricezione della chiamata di soccorso – l’imperizia di qualcuno abbia concorso all’affondamento, nessuno riuscirà a toglierlo facilmente dalla mente di Menotti Barbieri e di sua moglie.

C’è, a riproporre al cuore ed alla mente dei due genitori vinti dal dolore, il ricordo fin troppo lucido del racconto che il loro Angelo, aveva fatto, al rientro a Venezia dal primo viaggio in mare della sua vita.

Alla madre ed al padre Angelo aveva detto: «Ce la siamo vista brutta.
Vi giuro che è stata una bruttissima esperienza, la peggiore della mia vita.
Eravamo usciti dal porto da poco tempo – un’ora, un’ora e mezza, forse – quando il «Fusina» ha cominciato ad inclinarsi da un lato.
Colpa del carico, forse.
Colpa del vento e del mare che con il carico, probabilmente mal sistemato, spingevano la barca tutta da una parte.
Gli uomini hanno faticato parecchio a tenerla a galla.
Io sudavo freddo.
Ho creduto proprio che saremmo finiti a picco».

Il padre di Angelo, allora, forte della sua esperienza di tredici anni di navigazione, aveva tentato di ridurre, nella mente, del mozzo, la portata del rischio che il «Fusina» avrebbe corso in quell’occasione.

Ora nella mente di Menotti Barbieri e di sua moglie, quel racconto si dilata, assume le tinte fosche di una tragica premonizione.

«E’ evidente – dice il padre del mozzo – che anche stavolta il carico non era sistemato bene.
E’ evidente che s’è ripetuto lo stesso guaio di quell’altro viaggio.
Solo che stavolta non ce l’hanno fatta a tener su la barca e quella, con la maledetta blenda, è andata a picco come un sasso».

Un’eco del rischio che il «Fusina» aveva corso all’inizio del penultimo viaggio di ritorno dallo scalo sardo a Porto Marghera, la si avverte anche nel minuscolo appartamento arroccato in cima ad una ripida scala di legno consunto, in un casermone grigio di via S. Giacomo, una trasversale di Corso del Popolo.

E’ la casa di Duilio Padoan, di 50 anni, il nostromo del «Fusina», uno dei diciotto.
«Duilio - ci dice la moglie – era un uomo di poche parole.
A casa non parlava quasi mai del lavoro: aveva i nipotini che lo occupavano per tutto il tempo.
L’ho sentito poche volte lamentarsi.
L’ultima volta però aveva accennato alla grossa fatica fatta, al gran brutto mare che c’era stato, al carico che li aveva fatti imbestialire.
Forse ne aveva parlato poco per non impressionarci.
Conoscendolo, mi aveva colpito il fatto che ne avesse accennato».
Il carico instabile, dunque, ha determinato il naufragio?
L’accertamento non sarà forse possibile mai.
E’ comunque la sola spiegazione razionale che gli uomini di mare (che compiono in queste ore un mesto pellegrinaggio nelle case dei loro sfortunati compagni di avventura: «un pugno di soldi che costa grandi spaventi, quando non procura dolori inguaribili come questo») riescono a dare.

Le stesse dichiarazioni del comandante Mario Borsani, dirigente della «Società Abruzzese di Navigazione», proprietaria del «Fusina» giustificano l’ipotesi che un improvviso sbandamento del carico, abbia determinato la catastrofe.

In agosto il «Fusina» era stato messo all’asciutto, in bacino di carenaggio, a Venezia.
Le strutture della nave erano state sottoposte a controllo: nulla quindi autorizzava l’ipotesi che il “cargo” non potesse reggere al mare, anche di massima forza.
Anche l’apparato motore e la timoneria erano stati controllati.
Tutto era risultato regolare.
Lo ha detto Mario Borsani.

Il «Fusina» - del valore fra i 300 e i 400 milioni – era stato costruito nel 1957 presso i cantieri «Pellegrini» di Napoli, per conto della società di navigazione «Sant’Ambrogio» di Genova.

Al varo il mercantile era stato battezzato «Nozarego» e con questo nome aveva compiuto molte diecine di traversate fra i porti italiani, siriani, algerini e francesi, trasportando merci varie e carichi secchi.

La «Società Abruzzese di Navigazione» aveva acquistato il «Nozarego» nell’aprile del 1968.
Il mercantile aveva cambiato nome.

I primi viaggi del «Fusina» si erano svolti fra Porto Marghera e gli scali della costa jugoslava.
La barca trasportava bauxite per conto della «Sava» e della «Montedison».
Più tardi erano cominciati i viaggi per la Sardegna.

Era cominciato il trasporto di blenda: il minerale ad alta concentrazione di piombo che pesa moltissimo ed occupa poco spazio.
La capacità di carico del «Fusina», come risulta dal racconto di Ugo Freguja – il solo sopravvissuto, almeno fino ad ora – e da altre testimonianze, veniva sfruttata al massimo: nelle stive del «cargo», prive di paratie, restava ancora spazio.
In coincidenza con uno sbandamento del carico (una massa vischiosa come il fango) le stive possono aver imbarcato una grossa ondata.
La spinta dell’acqua può aver accentuato l’oscillazione del bastimento fin oltre il limite critico.
La tragedia del «Fusina» gli uomini del mare di Chioggia riescono a spiegarla soltanto così.

Ma è davvero così che sono andate le cose?

Ci sono responsabilità da indicare, come vorrebbe Menotti Barbieri, il padre del sedicenne che è andato a rischiare la vita in mare per dare una mano in casa, con le 97 mila lire mensili che gli davano per un lavoro duro, da uomini?

E’ innegabile: di fronte a un “mistero” così tragico, gli uomini e le donne colpiti nei loro affetti più cari, vedono ombre dappertutto e le ombre accrescono il loro dolore.

Fra queste ombre una prende corpo nell’eco di certi discorsi, tutti fatti dagli uomini del «Fusina» nei giorni di vacanza a Chioggia, prima dell’ultima, fatale partenza da Porto Marghera.
«Che rabbia, mamma – ha detto il mozzo del «Fusina» - sono al mio primo imbarco e non so se resterò sulla barca. L’hanno venduta».

Anche il nostromo Duilio Padoan aveva parlato con il figlio Silvano della vendita del mercantile.

Anche in casa di Giovanni Nordio, detto Giorgio, il ventottenne telegrafista del «Fusina» s’era sentito parlare del passaggio di proprietà del mercantile.

Quello iniziato il 2 gennaio a Marghera avrebbe dovuto essere l’ultimo viaggio del «Fusina» sotto le insegne della «Società Abruzzese di Navigazione»?
La circostanza è stata categoricamente smentita dal comandante Mario Borsani.
«Era la nostra migliore unità – ha detto – e non è vero che era stata ceduta ad altri».

C’è un dato tragico e singolare nella storia dell’imbarco sul «Fusina» di Giovanni «Giorgio» Nordio, il radiotelegrafista diplomato alla Fondazione “Cini”.
Fidanzato da tre anni con Lucia Cesarin, una ragazza chioggiotta, il Nordio era salito sul mercantile affondato nel mare di Sardegna, su sollecitazione del fratello Agostino, un anno più vecchio di lui.
Agostino aveva trovato un posto su una nave più grossa.
Sul «Fusina» era rimasto libero il suo ruolo: perché non occuparlo piuttosto che restare a terra?
Giovanni Giorgio aveva accettato.

Dopo questo ultimo viaggio – quello che si presume gli sia costato la vita - «Giorgio» Nordio sarebbe sceso a terra: a febbraio si sarebbe imbarcato su una piattaforma fissa in mare della società «Snam – progetti».
Partendo s’era infilato in una tasca della giacca la lettera di assunzione arrivata pochi giorni prima.

Agostino Nordio sta navigando nell’Oceano Indiano.
Non si sa se abbia già appreso dell’affondamento del «Fusina», del drammatico appuntamento da lui inconsciamente fissato per il fratello, con la sorte più amara che il destino possa riservare alla gente di mare.

Gianpiero Rizzon

Continua...

Fine sesta parte - Articolo 07

 

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