Dal nostro
corrispondente
Cagliari, 19 gennaio
Il mare ha
restituito finora i corpi di quattro dei diciannove uomini che si
trovavano a bordo del mercantile «Fusina», di tremila tonnellate,
naufragato nella notte di venerdì a poche miglia dalla costa sarda.
Quattro marinai morti nel tentativo di raggiungere a nuoto la costa.
Finora il solo
superstite è il cameriere Ugo Freguia, veneziano, imbarcatosi per la
prima volta sei anni fa.
Dopo essere stato
rifocillato e visitato da un medico nella sua stanza dell’Hotel
Riviera, ha fatto il drammatico racconto della notte più lunga della
sua vita. Ora si è quasi del tutto rimesso.
E’ un ragazzo
biondo, occhi azzurri, non molto alto.
«Mi ha salvato la
calma – ha detto.
Non so ancora capacitarmi di essere l’unico superstite.
Navigavamo: avevamo lasciato da circa un’ora Porto Vesme sulla costa
sud occidentale della Sardegna, diretti a Venezia con un carico di
blenda molto bagnato. Un carico incompleto.
Il mare era grosso, forza sette, per un forte vento di maestrale che
ci soffiava attraverso di prora mentre salivamo per doppiare la
costa della Sardegna.
Un’ora di navigazione, erano circa le 22,30.
Io dormivo nella mia cabina.
Ho sentito delle urla, un marinaio che mi scuoteva, il pavimento
della nave fortemente sbandato.
Sono uscito in coperta.
C’era gente che gridava; ho capito che una grossa ondata doveva aver
sbandato il carico e che i legamenti delle paratie, corrosi
dall’acqua, avevano ceduto. La murata rasentava il pelo dell’acqua e
le ondate salivano sulla coperta».
«State calmi»
dicevo, mentre il comandante Catena ordinava di calare le scialuppe.
«Siete gente di
mare, non perdiamo la calma».
Non credevo che dei marinai facessero così.
Avevano perduto la testa.
Ma calare le
scialuppe con quell’inclinazione e con quel mare era impossibile e
la nave sembrava volesse capovolgersi da un momento all’altro.
Sarà trascorsa
un’ora, poi il comandante ha gridato di lanciarsi in mare con i
salvagente perché non ce la facevamo a calare le scialuppe.
«Un tuffo nell’inchiostro dietro due miei compagni: vedevamo lontano
il faro di Carloforte.
Il marconista aveva
lanciato due volte l’SOS; il capitano aveva sparato razzi rossi e
lanciato in mare le polveri fosforescenti, ma non c’era stata
nessuna risposta e non c’era più tempo per insistere.
Nell’acqua gelida,
le ondate erano alte e la terra distante.
Non rimaneva che
attendere il cavallone che spingeva verso la costa, dare qualche
bracciata, poi attendere che l’onda passasse, per ricominciare
daccapo.
La nave affondava.
Ho visto il
comandante che ancora incitava ad abbandonarla, poi tutto è
scomparso.
La nave si è inabissata capovolgendosi con le luci ancora accese.
«Vicino a me
c’erano quattro compagni.
Si dibattevano, ogni tanto qualcuno gridava "Aiutami", ma io non
potevo far nulla, sentivo una gamba paralizzata dai crampi del gelo.
"Aiuto" sentivo
gridare e io rispondevo: «Dai state calmi. L’onda ci porta a terra.
Non agitatevi così, vi stancate. Il salvagente, vi tiene a galla. A
terra ci arriviamo, anche se non subito; il vento va verso costa».
Ma le grida d’aiuto
continuavano; io non facevo che incitare alla calma, preoccupato per
quella gamba che non reagiva, che mi faceva male.
Ma c’era il faro
ogni pochi secondi, quando salivo sulla cresta delle onde, a darmi
speranza.
Ne scorgevo la luce prima di precipitare nel buio della valle
d’onda.
Poi non so.
Ho nuotato tutta la notte e ad un tratto mi sono accorto che non
sentivo più alcuni dei miei compagni.
Ce n’erano soltanto due (uno era Ballarin, fin sotto costa) poi ho
perso anche loro e ho visto i salvagente galleggiare vuoti.
Sono approdato e mi
sono aggrappato alla spiaggia.
Ero esausto e mi sono abbandonato; avevo fame e vomitavo; forse
avevo bevuto acqua di mare.
Poi ho cercato i
miei compagni lungo la spiaggia, li ho chiamati per nome per circa
un’ora, ma non sentivo altro che il fragore delle ondate.
Saranno state le tre o le quattro del mattino di sabato.
Mi sono addormentato sotto alcune rocce; la zona era disabitata,
selvaggia; non vedevo una casa.
«Poi al mattino mi sono svegliato intirizzito, con gli abiti
bagnati, nel vento freddo e umido di mare che batteva sulla costa.
Ho visto una villa,la villa dell’ing. Freni».
Mi sono trascinato fin lì carponi, ma la porta era chiusa.
Ho bussato inutilmente.
Avevo fame, ero stanco ed ero preoccupato per le ore trascorse in
mare e sulla spiaggia con gli abiti bagnati.
Tremavo dal freddo.
Davanti a me c’era una scarpata ripida, rocciosa.
Ho tentato strisciando di scalarla, ma mi sono accorto dopo essermi
esaurito, che non ce l’avrei mai fatta.
Sono tornato alla
villa e ho visto una seconda porta, quella di servizio aperta. Sono
entrato.
Ho trovato un letto e delle coperte.
Ho cercato del cibo.
Nulla.
Allora mi sono
addormentato di nuovo.
E’ passato così tutto il sabato, e la notte di domenica, poi, verso
mattino, ho sentito una voce d’uomo dopo tante ore di vento.
Era Antioco Grosso, un allevatore di 64 anni, che incitava il suo
bestiame al pascolo.
Mi sono presentato a lui, gli ho detto di essere un naufrago che
avevo fame».
Poi confessa che,
dopo questa esperienza, non navigherà più.
Il mare ha portato a riva due corpi.
Altri due sono stati ricuperati in mattinata dai mezzi di soccorso
dopo essere stati avvistati da un elicottero e da un aereo del
Centro soccorso di Elmas.
Le navi «Andromeda»
e «Altair», mezzi della Capitaneria di porto di Cagliari, un
rimorchiatore e alcune motovedette della Guardia di Finanza hanno
continuato le ricerche per tutta la mattinata procedendo a
«scandaglio», cioè non troppo distanti l’una dall’altra e a
semicerchio, nella zona in cui la motonave «Gioritta» ha avvistato
cinque boccaporti di legno della nave naufragata e poco distante
anche un’ampia macchia di nafta, che dovrebbe indicare il punto
dell’affondamento.
Questa sera Freguja
è stato accompagnato nella camera ardente del cimitero di
Carloforte.
Lì ha potuto identificare i corpi di tre suoi compagni: il direttore
di macchina Giorgio Renier, di 32 anni, il nostromo Duilio Padoan;
l’altro sarebbe l’operaio meccanico Francesco Ravalico del quale il
cameriere conosceva solo il nome di battesimo, Francesco, e che era
di Trieste.
Al suo dito è stata trovata una fede nuziale con la scritta «Maria
21-2-1960» particolare che darebbe la certezza del riconoscimento,
in quanto la moglie di Francesco Ravalico, che è di Trieste, si
chiama Maria.
Il nostromo Duilio
Padoan era vestito e aveva le scarpe; al collo aveva una catenina
d’oro con una medaglietta con l’immagine della Madonna su cui è
scritto: «Dio ti protegga».
Il nostromo è stato trovato abbracciato ad un salvagente anulare.
Francesco Ravalico
era seminudo, indossava solo le mutande e un salvagente a giubbotto.
Giorgio Renier è
stato riconosciuto anche da un sott’ufficiale della Marina militare,
il secondo capo Franco Pistis che lo aveva conosciuto durante la
sosta della “Fusina" a Porto Vesme.
Il pretore di
Sant’Antioco, dott. Polo, che ha assistito al riconoscimento, ha
lasciato Carloforte per ritornare a Sant’Antioco dove Ugo Freguja ha
identificato il quarto corpo per quello di Nicola Farinola di
Molfetta.
Dino Sanna |