Mi sono sempre chiesta :“Perché sono
tornata qui?”
Ci sono nata, cresciuta, me ne sono
allontanata, pur non volendo, e sono tornata.
In un’isola c’è sempre qualcosa che non
puoi trovare da nessun’altra parte.
Le sue peculiarità e il mare intorno la rendono unica,
irripetibile e trasmettono a chi ci vive la stessa
impronta, quasi un timbro che l’isolano si porta dietro
ovunque e che chiunque, incontrandolo, riesce a percepire.
Forse è retorica, ma l’isolano è speciale,
non nel senso che è migliore degli altri, bensì nel senso
che costituisce una specie a sé:
capace di grandi sopportazioni, ma anche insofferente alle
limitazioni;
difensore strenuo della tradizione, ma anche proiettato
verso l’oltremare, oltre l’orizzonte;
geloso del suo patrimonio culturale e umano, ma anche
generoso all’occorrenza;
chiuso e burbero a tratti, ma anche aperto e gioviale con
chi sa entrare in sintonia con lui.
Vivere su un’isola, perché qui si può
essere ancora uomini, si può ancora mantenere
l’equilibrio, il giusto equilibrio tra l’essere e l’avere;
perché qui ti sembra di avere tutto, anche se non è così,
e ti accontenti dell’essenziale e non pensi solo
all’avere.
Prima o poi l’isola ti fa capire che è
meglio essere, quello che si è, che è meglio dare, quel
poco che si ha, pur non disdegnando di ricevere.
E l’isola ci dà, ci dà tutto e da noi
pretende solo silenzio e rispetto: come chiesa, dove entri
con riverenza e contempli icone e rivolgi preghiere.
Penso alla chiesa... come isola di
sacralità nel profano.
Penso all’isola... come chiesa da non
profanare.
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