La storia |
Durante la Quaresima, in ogni sala da pranzo era appeso un
pupazzo che rappresentava una donna con sette gambe, con una
graticola in una mano ed un pesce nell’altra; era in carta e
ogni domenica gli si amputava una gamba, al termine del
ciclo quaresimale la bambolina si bruciava. Era la
rappresentazione della Quaresima (“a Quàizima”), e può
essere considerata come un calendario.
La Quaresima aveva inizio con “e Sénne” (le Sacre Ceneri),
il mercoledì successivo al martedì grasso. Cominciava così
un periodo di magra e penitenza con astensione dalle carni,
chiusura delle sale da ballo e sospensione dei matrimoni.
Durante il
ciclo quaresimale, si svolgeva, il 19 Marzo, la festa di San
Giuseppe, organizzata dai “banchè” (falegnami), ricorrenza
particolarmente sentita a Carloforte, ancora oggi. Si
teneva, nella serata, una solenne processione, che doveva
passare nella via in cui abitava “u prió”, il priore
dell’associazione organizzatrice. Terminati i riti
religiosi, a casa del prió si svolgeva un banchetto per i
soci.
Secondo
appuntamento religioso, molto importante, tanto oggi quanto
in passato, sono le Quarantore: tre giorni d’adorazione
personale e comunitaria al Santissimo Sacramento.
L’organizzazione era curata dalla Congregazione del
Santissimo Sacramento, la più antica di Carloforte, figlia
della Confraternita dei SS. Nazario e Celso, attiva a
Tabarca. Gli iscritti portavano, durante le processioni ed i
funerali, l’abito bianco (camice, cappuccio, cordone e
guanti), da qui la distinzione fra cappe giànche e nàigre
agli inizi del Novecento.
In
occasione delle Quarantore, non mancavano mai un
predicatore, che in genere veniva dal continente, e padri
confessori. La partecipazione alle funzioni delle tre del
pomeriggio e della sera era notevole, anche perché una delle
poche occasioni, soprattutto per le ragazze, al termine
delle funzioni, di fare una passeggiata alla marina.
I riti
cominciavano a farsi sempre più intensi dalla Domenica delle
Palme (“Ramôvìva”).
Il sabato precedente i ragazzi passavano per le strade del
paese, al grido “ai parmé! ai parmé” e vendevano le palme
per i riti della domenica. L’indomani mattina tutti si
recavano in piazza per la benedizione dei “parmé” e
“ramôvìva” (palme e rami d’ulivo), alla fine della quale,
con una breve processione, ci si recava in chiesa “p’a méssa
de réu”, (messa solenne).
Era usanza
appendere alle palme o ai rami d’ulivo i “canestrélli da
pasciun” (canestrelli della passione). Oggi scomparsi,
consistevano in un impasto circolare privo d’uova e di
zucchero. S’immergevano per pochi secondi in una pentola
d’acqua calda, dove in precedenza erano state messe foglie
di limone e di granturco per dare lucentezza ai dolci.
Infine i canestrelli così ottenuti si cuocevano in forno. Il
dolce tipico di questa domenica è, in ogni caso, “a luña”
(la luna, rappresenta la fase lunare di questa domenica),
impasto di forma circolare della stessa pasta delle
“fantiñe” natalizie, dei “pé de porcu” e canestrelli.
Sempre i
bambini erano i protagonisti di un altro rito che si
svolgeva nei giorni della Settimana Santa. Muniti di
raganelle di legno (batàile), che facevano suonare con
forza, giravano per le vie del paese ed invitavano i fedeli
alle funzioni religiose; il suono delle raganelle era
intercalato dalla cantilena: “àu primmu du ruzòiu; a chi
végne, a chi nu végne àu dimmu”. Dal Giovedì Santo alla
Pasqua le campane erano legate, allora i bambini con le
raganelle indicavano ai fedeli l’ora delle celebrazioni
religiose.
La sera del
Giovedì Santo, si cantava in chiesa l’Ufficio delle Tenebre.
Ad un lato del presbiterio trovava posto un candeliere,
culminante con un triangolo, che reggeva quindici candele;
alla fine d’ogni salmo, alla parola Gloria, era spenta una
candela. Alla fine delle preghiere si faceva buio in tutta
la chiesa allora il celebrante diceva al viceparroco: “Fai
entrare i Giudei”. I bambini allora entravano in chiesa e in
fila per due si disponevano al centro della navata. Ad un
segnale del celebrante cominciavano a far ruotare le
raganelle, con la conseguenza di riempire la chiesa con un
rumore assordante, tale che le donne si turavano le orecchie
e inveivano contro i bambini.
Al termine
della cerimonia, ancor oggi, si procede allo spoglio degli
altari. Si tolgono tutti i crocifissi e in passato, inoltre,
si coprivano tutte le statue con drappi neri o viola.
In questo giorno, la chiesa era lasciata aperta tutta la
notte (anche oggi) per l’adorazione del Santissimo, riposto
in una cappella laterale (u Sepulcru) riccamente addobbata
con una gran quantità di fiori e grano fatto germogliare al
buio, in modo che assumesse un colore giallo pallido.
Questa pratica pia era un momento essenziale della vita
religiosa carlofortina, ed ebbe anche sviluppi sociali;
qualche parroco, ignorando la tradizione, chiuse la chiesa
suscitando malcontento e veementi proteste da parte di
fedeli e cittadini comuni.
Il Venerdì
Santo, giorno d’astinenza dalle carni e digiuno, vedeva i
riti salienti della settimana. Nel pomeriggio alcune donne,
in sacrestia, preparavano il Cristo Morto: lo ripulivano, lo
cospargevano di vari profumi e infine lo adagiavano su una
lettiga addobbata con fiori d’arancio (fiore dei re), e
coperta con un tulle bianco regalato da una sposa del paese
(accade ancora oggi). Si passava in seguito alla vestizione
dell’Addolorata, la piccola statua (diversa da quella che si
venera oggi) si vestiva con abiti e manto nero, fermato sul
petto da una spilla a forma di cuore, ferito da un pugnale.
Alla sera
al termine della funzione in chiesa, cominciava la
processione del Cristo morto e dell’Addolorata. Aprivano il
corteo le bambine tutte vestite con i grembiuli neri della
scuola e fazzoletto bianco in testa; i bambini con le
batàile; il popolo; tutte le associazioni religiose, in
particolare modo le dame di carità con il tradizionale abito
e velo nero. Alla fine il Simulacro della Vergine
Addolorata, che precedeva la lettiga col Cristo Morto
(secondo una tradizione locale la Madonna va in cerca del
figlio morto che non riesce trovare), portata da uomini
delle associazioni vestiti con cotte bianche (con qualche
variazione le celebrazioni del Venerdì sono le medesime
anche oggi).
Tutto il
tragitto era accompagnato dai tradizionali canti (Stava
Maria Dolente..) e dal suono roco delle batàile. Dai balconi
delle vie in cui si snodava la processione, pendevano le più
belle lenzuola del corredo, con al centro un fazzoletto nero
in segno di lutto, e per la stessa ragione i tricolori
Venerdì e Sabato venivano issati a mezz’asta. Finita la
processione nella tarda serata si svolgeva la Via Crucis in
chiesa. |
Preghiere dialettali |
Contemplazione delle piaghe del Signore
Cruxe Santa, Cruxe Dégna
ch’ a m’avorde ch’a m’enségne,
ch’a m’enségne a drîta via
pé sarvò l’ànima mia.
Cruxe Santa, Cruxe Beata
che dài àngiai sei adurata
andàndu e riturnàndu
Cruxe Santa a vuì me racumandu.
Santa Madre deh! Voi fate
che le piaghe del Signore
siano impresse nel mio cuore.
Oh! Che capo beato è nel mio gran Signore
è stato incoronato con tanto dolore,
con tanto dolore, con tanto patire,
non basta più pene l’amato mio bene.
Non più tormentato il mio caro Gesù,
discende nell’anima che cosa mai più.
Cruxe Santa, Cruxe Dégna…
Santa Madre deh ! voi fate…
Oh! Che bocca beata è nel mio gran Signore
è stata invelenata con tanto dolore,
con tanto dolore, con tanto patire,
non basta più pene l’amato mio bene.
Non più tormentato il mio caro Gesù,
discende nell’anima che cosa mai più.
Cruxe Santa, Cruxe Dégna…
Santa Madre deh ! voi fate…
Oh! Che petto beato è nel mio gran Signore
è stato lansato con tanto dolore,
con tanto dolore, con tanto patire,
non basta più pene l’amato mio bene.
Non più tormentato il mio caro Gesù,
discende nell’anima che cosa mai più.
Cruxe Santa, Cruxe Dégna…
Santa Madre deh ! voi fate…
Oh! Che mani beate son nel mio gran Signore
son state inchiodate con tanto dolore,
con tanto dolore, con tanto patire,
non basta più pene l’amato mio bene.
Non più tormentato il mio caro Gesù,
discende nell’anima che cosa mai più.
Cruxe Santa, Cruxe Dégna…
Santa Madre deh ! voi fate…
Oh! Che piedi beati son nel mio gran Signore
son stati inchiodati con tanto dolore,
con tanto dolore, con tanto patire,
non basta più pene l’amato mio bene.
Non più tormentato il mio caro Gesù,
discende nell’anima che cosa mai più. |
E mille Cruxe
Diému mille Cruxe
che e vostre man gluriuze,
venerdì santu e macurdì
ancö han inciodàu u nóstru Segnun
sopra lu légnu de la santa Cruxe.
Madre Maria forte forte lo piangeva,
forte forte lo carinava,
angelo del cielo lo confortava,
lo confortava e non finiva mai.
In questa via se n’anderemo,
forse nemico incontreremo,
forse starà là.
Chi ha dîtu e mille Cruxe,
ui ha dite, e ui ha fete di,
avanti de passò questa prezensa
ciamiému u nóstru Diu,
nostru Diu u vegnerà
c’u so carìscimu fìggiu Santu. |
In chiesa
Intru in Corpus Domini,
Göxu Cristu in potestà.
Sono misera peccatrice,
son venuta qui ad adorar.
Piange gli occhi, piange il cuore,
piange le piaghe del mio Signore.
Dolce cuor del mio Gesù,
fa ch’io t’ami sempre più.
Egua Santa, benedetta,
ch’a me love,ch’a me nétta,
ch’ha me netta i me peccuài
da lu tempu che sun nata.
Gesù Nazareno, Re dei giudei,
per il segno della Santa Croce. |
Conclusione |
In passato, il Sabato Santo (fino al 1950 la funzione della
veglia pasquale si svolgeva all’alba), quando le campane
risuonavano (batagiò), per annunciare la Resurrezione, una
folla di adulti e bambini si recavano alla spiaggia (dove
oggi sorge il porto) e mentre entravano in acqua ripetevano:
”Vàttene via brütù e spüsù, che l’è risuscitàu u me Segnun”.
L’abluzione rituale, si credeva potesse scacciare mali
fisici e spirituali. La stessa frase accompagnava anche
molti riti che si tenevano privatamente in casa.
C’è chi bruciava il pupazzo della Quàizima, chi munito di
bastone colpiva sedie e tavolo per scacciare il male
dall’abitazione…
Alla messa
di resurrezione, l’intero presbiterio era occultato da un
grande drappo. Nel momento in cui il sacerdote intonava il
Gloria in excelsis, al suono di tutte le campane, il telo
cadeva al suolo scoprendo alla vista l’altare, e sul
tronetto centrale la statua di Gesù Risorto.
Oggi il
simulacro entra in chiesa processionalmente dalla portone
principale.
La mattina di Pasqua, i bambini tornavano protagonisti.
Ognuno si recava in chiesa, alla messa dei bambini, col
desiderio di poter al più presto, mangiare il “cavagnéttu”.
Il “cavagnéttu”
è il dolce di Pasqua; ha la forma di un cestino, con al
centro una o due uova sode. Antesignano delle moderne uova
di cioccolato. Al rintocco festoso delle campane al
mezzogiorno di Pasqua, lo squillo delle sirene dei
traghetti, e numerosi colpi di fucile a salve, contribuivano
a distinguere il clima festoso di questo giorno.
A
Carloforte, diversamente dal resto della Sardegna, la
processione dell’incontro fra il Risorto e la Madonna della
domenica mattina, non avviene, anche se ciò non lo si può
escludere per il passato (a Tabarka si svolgeva una
processione il giorno di Pasqua).
Sciolto il
periodo di penitenza le famiglie si riunivano, in grandi
gruppi, per il pranzo e la cena. I festeggiamenti
continuavano anche il giorno seguente (a segùnda festa)
spesso trascorsa “inta vigna”.
Andrea Luxoro |
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