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Dalle Ceneri a Pasqua: Tradizioni della Quaresima e di Pasqua a Carloforte - Album foto

   
Dalle Ceneri a Pasqua:
Tradizioni della Quaresima e di Pasqua a Carloforte
 

di Andrea Luxoro

 

 

 

 

 

 

La storia

Durante la Quaresima, in ogni sala da pranzo era appeso un pupazzo che rappresentava una donna con sette gambe, con una graticola in una mano ed un pesce nell’altra; era in carta e ogni domenica gli si amputava una gamba, al termine del ciclo quaresimale la bambolina si bruciava. Era la rappresentazione della Quaresima (“a Quàizima”), e può essere considerata come un calendario.

La Quaresima aveva inizio con “e Sénne” (le Sacre Ceneri), il mercoledì successivo al martedì grasso. Cominciava così un periodo di magra e penitenza con astensione dalle carni, chiusura delle sale da ballo e sospensione dei matrimoni.

Durante il ciclo quaresimale, si svolgeva, il 19 Marzo, la festa di San Giuseppe, organizzata dai “banchè” (falegnami), ricorrenza particolarmente sentita a Carloforte, ancora oggi. Si teneva, nella serata, una solenne processione, che doveva passare nella via in cui abitava “u prió”, il priore dell’associazione organizzatrice. Terminati i riti religiosi, a casa del prió si svolgeva un banchetto per i soci.

Secondo appuntamento religioso, molto importante, tanto oggi quanto in passato, sono le Quarantore: tre giorni d’adorazione personale e comunitaria al Santissimo Sacramento. L’organizzazione era curata dalla Congregazione del Santissimo Sacramento, la più antica di Carloforte, figlia della Confraternita dei SS. Nazario e Celso, attiva a Tabarca. Gli iscritti portavano, durante le processioni ed i funerali, l’abito bianco (camice, cappuccio, cordone e guanti), da qui la distinzione fra cappe giànche e nàigre agli inizi del Novecento.

In occasione delle Quarantore, non mancavano mai un predicatore, che in genere veniva dal continente, e padri confessori. La partecipazione alle funzioni delle tre del pomeriggio e della sera era notevole, anche perché una delle poche occasioni, soprattutto per le ragazze, al termine delle funzioni, di fare una passeggiata alla marina.

I riti cominciavano a farsi sempre più intensi dalla Domenica delle Palme (“Ramôvìva”).
Il sabato precedente i ragazzi passavano per le strade del paese, al grido “ai parmé! ai parmé” e vendevano le palme per i riti della domenica. L’indomani mattina tutti si recavano in piazza per la benedizione dei “parmé” e “ramôvìva” (palme e rami d’ulivo), alla fine della quale, con una breve processione, ci si recava in chiesa “p’a méssa de réu”, (messa solenne).

Era usanza appendere alle palme o ai rami d’ulivo i “canestrélli da pasciun” (canestrelli della passione). Oggi scomparsi, consistevano in un impasto circolare privo d’uova e di zucchero. S’immergevano per pochi secondi in una pentola d’acqua calda, dove in precedenza erano state messe foglie di limone e di granturco per dare lucentezza ai dolci. Infine i canestrelli così ottenuti si cuocevano in forno. Il dolce tipico di questa domenica è, in ogni caso, “a luña” (la luna, rappresenta la fase lunare di questa domenica), impasto di forma circolare della stessa pasta delle “fantiñe” natalizie, dei “pé de porcu” e canestrelli.

Sempre i bambini erano i protagonisti di un altro rito che si svolgeva nei giorni della Settimana Santa. Muniti di raganelle di legno (batàile), che facevano suonare con forza, giravano per le vie del paese ed invitavano i fedeli alle funzioni religiose; il suono delle raganelle era intercalato dalla cantilena: “àu primmu du ruzòiu; a chi végne, a chi nu végne àu dimmu”. Dal Giovedì Santo alla Pasqua le campane erano legate, allora i bambini con le raganelle indicavano ai fedeli l’ora delle celebrazioni religiose.

La sera del Giovedì Santo, si cantava in chiesa l’Ufficio delle Tenebre. Ad un lato del presbiterio trovava posto un candeliere, culminante con un triangolo, che reggeva quindici candele; alla fine d’ogni salmo, alla parola Gloria, era spenta una candela. Alla fine delle preghiere si faceva buio in tutta la chiesa allora il celebrante diceva al viceparroco: “Fai entrare i Giudei”. I bambini allora entravano in chiesa e in fila per due si disponevano al centro della navata. Ad un segnale del celebrante cominciavano a far ruotare le raganelle, con la conseguenza di riempire la chiesa con un rumore assordante, tale che le donne si turavano le orecchie e inveivano contro i bambini.

Al termine della cerimonia, ancor oggi, si procede allo spoglio degli altari. Si tolgono tutti i crocifissi e in passato, inoltre, si coprivano tutte le statue con drappi neri o viola.
In questo giorno, la chiesa era lasciata aperta tutta la notte (anche oggi) per l’adorazione del Santissimo, riposto in una cappella laterale (u Sepulcru) riccamente addobbata con una gran quantità di fiori e grano fatto germogliare al buio, in modo che assumesse un colore giallo pallido.
Questa pratica pia era un momento essenziale della vita religiosa carlofortina, ed ebbe anche sviluppi sociali; qualche parroco, ignorando la tradizione, chiuse la chiesa suscitando malcontento e veementi proteste da parte di fedeli e cittadini comuni.

Il Venerdì Santo, giorno d’astinenza dalle carni e digiuno, vedeva i riti salienti della settimana. Nel pomeriggio alcune donne, in sacrestia, preparavano il Cristo Morto: lo ripulivano, lo cospargevano di vari profumi e infine lo adagiavano su una lettiga addobbata con fiori d’arancio (fiore dei re), e coperta con un tulle bianco regalato da una sposa del paese (accade ancora oggi). Si passava in seguito alla vestizione dell’Addolorata, la piccola statua (diversa da quella che si venera oggi) si vestiva con abiti e manto nero, fermato sul petto da una spilla a forma di cuore, ferito da un pugnale.

Alla sera al termine della funzione in chiesa, cominciava la processione del Cristo morto e dell’Addolorata. Aprivano il corteo le bambine tutte vestite con i grembiuli neri della scuola e fazzoletto bianco in testa; i bambini con le batàile; il popolo; tutte le associazioni religiose, in particolare modo le dame di carità con il tradizionale abito e velo nero. Alla fine il Simulacro della Vergine Addolorata, che precedeva la lettiga col Cristo Morto (secondo una tradizione locale la Madonna va in cerca del figlio morto che non riesce trovare), portata da uomini delle associazioni vestiti con cotte bianche (con qualche variazione le celebrazioni del Venerdì sono le medesime anche oggi).

Tutto il tragitto era accompagnato dai tradizionali canti (Stava Maria Dolente..) e dal suono roco delle batàile. Dai balconi delle vie in cui si snodava la processione, pendevano le più belle lenzuola del corredo, con al centro un fazzoletto nero in segno di lutto, e per la stessa ragione i tricolori Venerdì e Sabato venivano issati a mezz’asta. Finita la processione nella tarda serata si svolgeva la Via Crucis in chiesa.

Preghiere dialettali

Contemplazione delle piaghe del Signore

Cruxe Santa, Cruxe Dégna
ch’ a m’avorde ch’a m’enségne,
ch’a m’enségne a drîta via
pé sarvò l’ànima mia.
Cruxe Santa, Cruxe Beata
che dài àngiai sei adurata
andàndu e riturnàndu
Cruxe Santa a vuì me racumandu.

Santa Madre deh! Voi fate
che le piaghe del Signore
siano impresse nel mio cuore.

Oh! Che capo beato è nel mio gran Signore
è stato incoronato con tanto dolore,
con tanto dolore, con tanto patire,
non basta più pene l’amato mio bene.
Non più tormentato il mio caro Gesù,
discende nell’anima che cosa mai più.
Cruxe Santa, Cruxe Dégna…
Santa Madre deh ! voi fate…

Oh! Che bocca beata è nel mio gran Signore
è stata invelenata con tanto dolore,
con tanto dolore, con tanto patire,
non basta più pene l’amato mio bene.
Non più tormentato il mio caro Gesù,
discende nell’anima che cosa mai più.

Cruxe Santa, Cruxe Dégna…
Santa Madre deh ! voi fate…

Oh! Che petto beato è nel mio gran Signore
è stato lansato con tanto dolore,
con tanto dolore, con tanto patire,
non basta più pene l’amato mio bene.
Non più tormentato il mio caro Gesù,
discende nell’anima che cosa mai più.

Cruxe Santa, Cruxe Dégna…
Santa Madre deh ! voi fate…

Oh! Che mani beate son nel mio gran Signore
son state inchiodate con tanto dolore,
con tanto dolore, con tanto patire,
non basta più pene l’amato mio bene.
Non più tormentato il mio caro Gesù,
discende nell’anima che cosa mai più.

Cruxe Santa, Cruxe Dégna…
Santa Madre deh ! voi fate…

Oh! Che piedi beati son nel mio gran Signore
son stati inchiodati con tanto dolore,
con tanto dolore, con tanto patire,
non basta più pene l’amato mio bene.
Non più tormentato il mio caro Gesù,
discende nell’anima che cosa mai più.

E mille Cruxe

Diému mille Cruxe
che e vostre man gluriuze,
venerdì santu e macurdì
ancö han inciodàu u nóstru Segnun
sopra lu légnu de la santa Cruxe.
Madre Maria forte forte lo piangeva,
forte forte lo carinava,
angelo del cielo lo confortava,
lo confortava e non finiva mai.
In questa via se n’anderemo,
forse nemico incontreremo,
forse starà là.
Chi ha dîtu e mille Cruxe,
ui ha dite, e ui ha fete di,
avanti de passò questa prezensa
ciamiému u nóstru Diu,
nostru Diu u vegnerà
c’u so carìscimu fìggiu Santu.

In chiesa

Intru in Corpus Domini,
Göxu Cristu in potestà.
Sono misera peccatrice,
son venuta qui ad adorar.
Piange gli occhi, piange il cuore,
piange le piaghe del mio Signore.
Dolce cuor del mio Gesù,
fa ch’io t’ami sempre più.
Egua Santa, benedetta,
ch’a me love,ch’a me nétta,
ch’ha me netta i me peccuài
da lu tempu che sun nata.
Gesù Nazareno, Re dei giudei,
per il segno della Santa Croce.

Conclusione

In passato, il Sabato Santo (fino al 1950 la funzione della veglia pasquale si svolgeva all’alba), quando le campane risuonavano (batagiò), per annunciare la Resurrezione, una folla di adulti e bambini si recavano alla spiaggia (dove oggi sorge il porto) e mentre entravano in acqua ripetevano: ”Vàttene via brütù e spüsù, che l’è risuscitàu u me Segnun”.

L’abluzione rituale, si credeva potesse scacciare mali fisici e spirituali. La stessa frase accompagnava anche molti riti che si tenevano privatamente in casa.
C’è chi bruciava il pupazzo della Quàizima, chi munito di bastone colpiva sedie e tavolo per scacciare il male dall’abitazione…

Alla messa di resurrezione, l’intero presbiterio era occultato da un grande drappo. Nel momento in cui il sacerdote intonava il Gloria in excelsis, al suono di tutte le campane, il telo cadeva al suolo scoprendo alla vista l’altare, e sul tronetto centrale la statua di Gesù Risorto.

Oggi il simulacro entra in chiesa processionalmente dalla portone principale.
La mattina di Pasqua, i bambini tornavano protagonisti. Ognuno si recava in chiesa, alla messa dei bambini, col desiderio di poter al più presto, mangiare il “cavagnéttu”.

Il “cavagnéttu” è il dolce di Pasqua; ha la forma di un cestino, con al centro una o due uova sode. Antesignano delle moderne uova di cioccolato. Al rintocco festoso delle campane al mezzogiorno di Pasqua, lo squillo delle sirene dei traghetti, e numerosi colpi di fucile a salve, contribuivano a distinguere il clima festoso di questo giorno.

A Carloforte, diversamente dal resto della Sardegna, la processione dell’incontro fra il Risorto e la Madonna della domenica mattina, non avviene, anche se ciò non lo si può escludere per il passato (a Tabarka si svolgeva una processione il giorno di Pasqua).

Sciolto il periodo di penitenza le famiglie si riunivano, in grandi gruppi, per il pranzo e la cena. I festeggiamenti continuavano anche il giorno seguente (a segùnda festa) spesso trascorsa “inta vigna”.

Andrea Luxoro


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