Ebbene sì, Carloforte, nella sua storia ha avuto a che fare con molti Re.
Più o meno benevoli, più o meno ricchi, più o meno nobili, sono stati tutti personaggi importanti della storia tabarkina.
A Carlo Emanuele III, suo fondatore, ha dedicato un monumento, ad altri ha intitolato vie, ma solo di uno sembra essersi dimenticata; forse perché il suo regno, effimero, durava poco più di un mese l’anno:
"Carlevò".
Dal 17 Gennaio,
"e disette", al martedì grasso,
"ürtimu giurnu de carlevò", i suoi sudditi più fedeli, le maschere, prendevano possesso del paese dall’alba al tramonto e oltre.
Tracciamo ora un ideale ritratto del Carnevale carlofortino anteguerra:
Nell’ultima metà del secolo scorso si è assistito ad un rilevante mutamento della società italiana. Lo sviluppo industriale degli anni cinquanta, segna uno spartiacque importante sia dal punto di vista sociale che culturale, otre che economico.
Pure Carloforte, reduce dai sacrifici del secondo conflitto mondiale, conosce i vantaggi della rinascita economica. Il notevole mutamento dello stile di vita, ha segnato profondamente anche la cultura popolare, che entra in netto conflitto con la modernità e la tecnologia.
Anche il Carnevale ha subito modificazioni rilevanti; la diffusione dei mezzi di comunicazioni di massa, ha favorito l’introduzione d’elementi caratteristici dei più famosi carnevali nazionali. La persistenza d’elementi tipici, testimonia la difficoltà dei processi di mutamento della tradizione. Alcuni di questi componenti possono, ancora oggi, essere individuati facilmente. Il Re di Carloforte, ha dovuto adeguarsi ai tempi, ma l’eredità della sua dinastia non è stata del tutto accantonata.
Nelle sue linee generali, il carnevale carlofortino, è sempre stato contraddistinto dalla momentanea rottura della routine del quotidiano. Spensieratezza ed allegria sono ingredienti necessari della ricetta carnevalesca. Il desiderio di svago si manifestava, particolarmente nelle mascherate e nelle serate danzanti.
A differenza di quanto accade oggi, le manifestazioni non erano concentrate nella settimana giovedì – martedì grasso, ma si estendevano per tutto il periodo che intercorreva fra il diciassette di Gennaio, all’ultimo giorno di Carnevale. La lunghezza di tale periodo è variabile (in base alla data della Pasqua), e ciò determina il
"Carlevò lungu o cürtu".
Il diciassette di gennaio si trascorreva, solitamente nelle case di campagna per la classica
"casciandra", e la sera,
"inxanè" (ossia utilizzando gli stessi abiti usati per la scampagnata e col viso coperto dalla maschera) si scendeva in paese, fra
"rundie" e canti, per partecipare alle prime danze, che proprio in questo giorno aprivano i battenti.
Con "e disette", ufficialmente si aprivano i festeggiamenti del carnevale. I balli si tenevano tutti i giorni (tranne il venerdì), mentre il fine settimana era dedicato ai veglioni, il momento più atteso da giovani e adulti.
Le maschere pian piano iniziavano a farsi più frequenti. Erano gli adulti, a differenza di quanto accade oggi, a mascherarsi, sia singolarmente sia in piccoli gruppi. La vicinanza delle maschere, che dal primo pomeriggio iniziavano il loro girovagare per le vie del paese, era rilevato dal caratteristico verso in falsetto
"Pru, pru pru". In passato si garantiva anche la musica con mandolini, fisarmoniche e tamburelli.
Mete privilegiate erano le case degli amici, la piazza, dove sicuramente si trovava qualche vittima da tormentare, i bar e i negozi di generi alimentari, dove si pretendeva che il proprietario elargisse gratuitamente dolci e confetti. Il rientro a casa era previsto a sera inoltrata, magari dopo essere passati alla Mutua o al Cavallera per qualche ballo.
In carlofortino vi sono essenzialmente due termini che indicano un travestimento finalizzato a celare la propria identità:
"Inxanose" e
"Inmascherose".
Il primo prevede un camuffamento del viso e l’indossare abiti consunti e logori, mentre il secondo indica un travestimento più completo, viso e corpo, e generalmente di fattura migliore rispetto al primo.
Il viso poteva essere coperto in vari modi. Si usava il
"sacchéttu", un pezzo di stoffa cucito a mo di fodera, sul quale si praticavano fori per gli occhi e la bocca (era forse il più diffuso, sicuramente il più semplice); la
"maschera de sàia", di stoffa esternamente ricoperte di cera, dai tratti androgini (erano considerate maschere di particolare bellezza, fornitore era il sig. Tiragallo, noto Cascà); la
"méza mascheriña nàigra", alla quale si applicava il
"vulàn" (pezzo di stoffa ondulata) per coprire meglio il viso.
Le maschere tradizionali non sono tante, ma avevano sicuramente il loro fascino:
"u gattu",
"u dominu",
"il fiocca la
neve", le principali, ma non mancavano
"napuliten",
"mainè",
"dotùi",
"pescuài"...
1. |
Fiocca la
neve |
: |
Con
il "gattu",
era la maschera più popolare. S’indossava un
lungo abito nero, in testa un fazzoletto o un
lungo capello a punta dello stesso colore del
vestito. Si completava il tutto applicando
sull’abito e sul copricapo una serie di grandi
palle di cotone. Alcuni portavano pure
l’ombrello rigorosamente nero, con le stesse
palle bianche applicate. Il viso era coperto o
dalla mezza mascherina nera o con la maschera di
cera. |
2. |
Gattu |
: |
l
corpo si avvolgeva in un lenzuolo bianco o in una
tovaglia a quadri. Con la stessa si realizzava un
cappuccio stringendo il lenzuolo al collo con un
elastico. Il volto era coperto dal "sacchéttu",
sul quale si dipingeva un muso felino, mentre le
orecchie prendevano forma legando le due estremità
della federa con nastrini di vario colore. |
3. |
Dominu |
: |
Sopra
un abito scuro, s’indossava un mantello di raso
nero, dal quale si ricavava un cappuccio orlato
con pizzo bianco (o rosso). Il domino non era una
maschera per tutti, perché la sua bellezza era
determinata dalla qualità della stoffa del
mantello, che generalmente era alta. |
4. |
Dòtu |
: |
Questa
maschera prevedeva l’uso di abito
particolarmente elegante e scuro, alcuni usavano
un frac. |
Per mascherarsi, in ogni caso, bastava ben poco: una maschera o un
"sacchettu", abiti smessi che erano conservati nel baule proprio per queste occasioni, e si era pronti per uscire. Scopo principale era quello di potersi divertire senza essere riconosciuti. Se ciò accadeva, la mascherata con gran malumore terminava lì.
Per meglio celare la propria identità le maschere emettevano una sottile voce in falsetto, caratteristica.
Le sfilate sono di introduzione relativamente recente e sono frutto della concentrazione del carnevale negli ultimi giorni del ciclo festivo. Anche in passato vi erano dei giorni emergenti:
"e disette",
"a cuxiña e a sö de zöggia
grassa" (i due giovedì precedenti il giovedì grasso),
"zöggia
grassa",
"a duménega e l’ürtimu giurnu de Carlevò" e a
"duménega da
pignatta".
Proprio il martedì grasso aveva in passato degli aspetti particolarmente interessanti, anche dal punto di vista etnografico.
Questo giorno era caratterizzato dal funerale del Carnevale.
Il Carnevale era rappresentato da un fantoccio di paglia o stracci. Gruppi di amici si organizzavano per la preparazione. Erano necessari paglia o stracci vecchi, con i quali si riempivano dei sacchi, ai quali, grazie a delle corde, si davano forme umane. Vecchi abiti eleganti vestivano il fantoccio, senza dimenticare un raffinato cappello.
Figura particolare, legata al passato, è quella della
"Quaizima" (Quaresima). La realizzazione era identica a quella del
"Carlevò", fatta eccezione per un’esasperata magrezza, ad indicare la caratteristica del periodo che si voleva rappresentare. Dalle tre del pomeriggio un singolare corteo partiva dall’abitazione nella quale si erano costruiti i fantocci. Anticamente
"Carlevò", era adagiato in una bara di legno, posta sopra un carretto, addobbato, data la circostanza, con corone di fiori e trainato da un innocente asinello. Seguiva seduta su una sedia l’esile
"Quaizima", vestita alla tabarkina. Non mancava il prete col chierichetto e una folta schiera di vedove (uomini o donne indifferentemente). Le vedove, per tutto il tragitto, mostravano in modo caricaturale il dolore per il caro estinto, accompagnando le lagne con campanacci (a emulare il suono
"dell’angunìa", - campane a morto) e tamburelli.
Verso il tramonto, dopo aver vagato per i vicoli del centro storico, si arrivava in piazza, da dove ci si dirigeva verso il porto, per l’ultimo saluto al
"Re".
Carlevò u l’è mórtu
imbriegu cumme ‘n pórcu
u l’ha fetu téstamentu
inscia ciassa du cunventu
u l’ha lasciaù ai só figgiö
macaruìn e raviö.
Carlevò, Carlevò
ghe ne daiému ‘na botta ‘n mò.
Carlevò, Carlevò
ghe ne daiému ‘na botta ‘n mò. |
Carnevale
è morto
ubriaco come un porco
ha fatto testamento
sulla piazza del convento
ha lasciato ai suoi figli
maccheroni e ravioli.
Carnevale,
Carnevale,
gli daremo una botta a mare.
Carnevale, Carnevale,
gli daremo una botta a mare. |
Fra le grida generali
"Carlevò" era buttato a mare. E più di qualche maschera partecipava al bagno fuori stagione; la
"Quaizima", a detta dei più anziani, era appesa ad una albero sul lungomare.
Terminato il
"rito", i drappelli di persone si scioglievano e si andava a casa per prepararsi all’ultimo veglione della stagione.
Carloforte tributava così gli ultimi onori al suo Re, dal breve regno di un solo mese. |